«Scarlett O’ Hara non era particolarmente bella». Scarlett? Se ad aprire la nuova edizione di Via col vento (Neri Pozza, pp. 1193, euro 25) è un lettore o spettatore che con Margaret Mitchell ha già dimestichezza l’effetto spiazzante è garantito. Certo, i lettori italiani di Gone with the Wind sanno perfettamente che «Miz Rossella» è un’invenzione dell’Italietta, abituata negli anni ’30 del secolo scorso ad autarchiche traduzioni letterali anche dei nomi. Ma un certo disagio è lo stesso inevitabile, perché Via col vento non è solo un grande romanzo: è un cult-book, sia nell’originale che nella traduzione, peraltro incompleta, realizzata a spron battuto nel 1937 da Ada Salvatore e dal grandissimo Enrico Piceni. Uno di quei libri in cui ogni singola battuta ha il suo peso: se cambia si avverte lo scarto. Nella versione del film ridoppiata nel 1977, lo slittamento dal perfetto «Francamente me ne infischio» di Rhett Butler all’insignificante «Francamente non me ne importa niente», bastava a rovinare il finale più famoso della storia del cinema.
Anna Biavasco e Valentina Guani, traduttrici di lungo corso e provata esperienza, si cimentano dunque, tentando l’azzardo di una nuova traduzione, in una missione meritoria e rischiosa. Meritoria, perché il test stavolta è integrale, perché alcuni passaggi della precedente traduzione risultavano evidentemente datati, soprattutto per i potenziali nuovi lettori (anche se definire quella traduzione «oggi quasi illeggibile» come fanno le traduttrici nella loro introduzione è ingeneroso). Pericolosa, perché il rischio di presentare un testo più fedele alla lettera dell’originale ma privo del fascino misterioso e forse non riproducibile di quella traduzione è inevitabile.

LO SCOGLIO PRINCIPALE era ovviamente il linguaggio dei neri. Margaret Mitchell aveva cercato di riprodurre la calata gutturale e sgrammaticata degli schiavi. Salvatore e Piceni si erano affidati a un gergo quasi caricaturale, da cartone animato d’epoca. Le nuove traduttrici hanno optato per una rivisitazione politicamente molto corretta. Troppo: è improbabile che una mammy nera del 1861, per esortare la sua miss a mangiare prima di un picnic in modo da non abbuffarsi poi peccando d’ineleganza, le spiegasse che «una vera signora pilucca come un uccellino». In ogni caso è buona norma rispettare le scelte lessicali degli autori evitando interventi d’autorità, corretti o scorretti che siano. È anche vero che prima o poi quegli interventi rischiano di essere operati persino sul testo inglese. C’è da chiedersi come reagirebbero critici e commentatori oggi, quando in nome dell’antirazzismo è pratica comune abbattere le statue di un gentiluomo come il generale Lee tacendo sui misfatti di un macellaio come Sherman, di fronte a un libro così palesemente scorretto da tutti i punti di vista. Quando uscì, nel 1936 non se ne curò nessuno o quasi. Fu un trionfo, nonostante il prezzo all’epoca inaudito di tre dollari, nel pieno della depressione. In pochi mesi il romanzo aveva venduto un milione di copie, l’anno seguente ottenne il Pulitzer. A tutt’oggi, Gone with the Wind è secondo nella lista dei libri più amati dagli americani, superato solo dalla Bibbia.

L’AUTRICE, Margaret Mitchell, aveva 36 anni. Era una giornalista celebre e dotata, figlia di una suffragetta di origini irlandese: volitiva, seducente, coraggiosa, appassionata di libri erotici, con un matrimonio fallito, un divorzio e un secondo matrimonio felice già all’attivo. Scriveva sin da quando era quasi in fasce ma nessuno dei suoi libri precedenti Via col vento è stato pubblicato fino al 1996, quando è uscito, ed è diventato un best seller negli Usa, Lost Leysen, terminato quando la scrittrice aveva 16 anni. Degli altri due romanzi completati prima del suo capolavoro si è invece persa traccia.
Margaret Mitchell («Peggy» quando scriveva sull’Atlanta Journal) era una ragazza del sud, cresciuta tra i racconti di una guerra tremenda e ancora vicina e poi di quella che era stata vissuta come un’occupazione militare. Racconta la guerra di secessione, la più sanguinosa della storia dopo le due guerre mondiali, e del crollo della Confederazione da un punto di vista parziale, inevitabilmente fazioso. Ma non bisogna neppure esagerare in anatemi. La sua pur esecrabile visione di uno schiavismo essenzialmente «buono» era influenzata dagli studi di Ulrich Bonnel Phillips, autore di American Negro Slavery e discusso padre fondatore della storia sociale americana, morto due anni prima dell’uscita del romanzo. All’epoca quell’interpretazione era Vangelo e lo sarebbe rimasta sino alla fine degli anni ’50. Peraltro Bonnell Phillips, bollato come «razzista» negli anni ’60 e ’70, è stato in seguito parzialmente rivalutato per lo spessore dei suoi studi nonostante l’estrema discutibilità delle sue tesi.

MA «VIA COL VENTO» non è una nostalgica apologia del vecchio Sud e dei suoi costumi aristocratici travolti dal dinamismo vorace e affarista del nord. La forza del romanzo è proprio la tensione continua tra la nostalgia della protagonista e dell’autrice per il mito di Dixie, sacralizzato sotto la linea Mason-Dixon dalla sconfitta, e il loro rifiuto di quel mito e di quel mondo. Scarlett è una Southern Belle solo in apparenza. Dell’essenza di quella cultura rifiuta invece tutto e in particolare, come aveva già fatto la combattiva madre dell’autrice, il posto inamovibile che assegnava alle donne. Scarlett/Rossella somiglia in realtà ai dinamici e rapaci nordisti, volgari ma vitali.

QUANDO in una delle battute più famose del libro Mammy, custode dei valori del sud ancor più rigida dei suoi ex padroni, la accusa di essere «un mulo con finimenti di cavallo» le sta dicendo che in realtà è una yankee. È vero, ma Scarlett non è tipo da formalizzarsi per simili particolari. Dixie è il passato. L’America degli yankee è il presente, che però conserva il mito di un mondo diverso e per molti versi opposto, destinato alla scomparsa anche senza la guerra, e segnato dalle cicatrici profondissime lasciate dalla prima guerra totale della storia moderna. In quell’America Scarlett sa di dovere e di volere sopravvivere.
«Se c’è un tema in Via col vento – spiegava l’autrice subito dopo l’uscita del romanzo – è la capacità di sopravvivere. Cosa permette ad alcune persone di superare le catastrofi mentre altre, apparentemente altrettanto capaci, forti e coraggiose, soccombono? Quali doti permettono ad alcuni di uscire vincitori dalla sfida e mancano invece a quelli che non ce la fanno? Io so solo che quelli che riescono a sopravvivere chiamano quella dote “intraprendenza”. Scrivo di persone che possiedono quell’intraprendenza e di persone che non la possiedono». Di quella famelica, vitale e anche volgare intraprendenza Scarlett ne ha da vendere. All’aristocratico sud di Dixie manca invece del tutto. Rhett e Scarlett, a diversi livelli di consapevolezza, lo rinnegano e allo stesso tempo lo rimpiangono. Ne disprezzano la mancanza di realismo e concretezza ma, per gli stessi motivi, ne riconoscono una sorta di superiorità morale. Via col vento non è l’epopea bugiarda dello schiavismo vinto e poi idealizzato: è la narrazione epica della contraddizione insanata che accompagna l’America moderna, della quale la caduta di Dixie è l’atto di nascita.
L’aspetto più complesso di Via col vento, quel che lo rende uno dei più grandi romanzi americani, inevitabilmente si perde nel film, pur a modo suo perfetto. Ma la stessa fama del capolavoro di Selznick rischia di contrabbandare il romanzo solo per una versione dettagliata della sceneggiatura. L’uscita di questa nuova e moderna traduzione è l’occasione per scoprire che non è affatto così.