Gli inglesi hanno il pub, i francesi i café e i bistrot, noi abbiamo il bar che, benché declinato con vari nomi che vanno da bar sport a bar del quartiere a bar Mario, sono luoghi di aggregazione e lettura sociale fra i più caratteristici del nostro paese. Prova ne è che pochi giorni fa, quando i clienti di un bar della Bovisa, a Milano, hanno scoperto che il locale avrebbe chiuso perché dopo 30 anni cambiava gestione, sono stati presi dallo sconforto e dai «Non sarà più come prima». Essendo una fan della vita da bar, che è un po’ come andare al cinema, ho nel mio bagaglio di osservatrice una certa casistica. Esistono delle discriminanti che creano due macro categorie: i bar popolari e quelli dei radical chic.

NEI PRIMI non manca mai la rosea Gazzetta, il barista ti dà del tu e ti saluta per nome, gli arredi seguono più l’estro creativo del proprietario che il design e ci incontri di tutto: l’operaio o l’imbianchino con i vestiti macchiati di pittura, gli impiegati che fanno due o tre pause caffè, le mamme che, dopo aver portato i figli a scuola, si concedono un’ora di chiacchiere, i maniaci del gratta e vinci, i pensionati che discutono di politica e provvedimenti economici, i professionisti che incontrano qualche cliente, i creativi che lavorano in un angolo con il loro portatile.

Nei secondi i colori e gli spazi sono curati, i baristi ossequiosi, non ci sono televisori o slot machine e la clientela si divide fra ragazze e signore con la borsa giusta, professionisti rampanti, genitori borghesi con figliolanza viziata, manager in pensione con velleità letterarie, hipster che non li distingui uno dall’altro, padroni di cani infiocchettati, coppie che parlano perfettamente le lingue straniere.
C’è però un particolare che separa più di altri questi due mondi, la qualità delle brioche. Nei bar sport sono spesso surgelate, nei secondi trovi più facilmente quelle di pasticceria. È una cosa che crea profonde crisi di scelta in chi, come me, preferisce il colorato mondo del bar popolare, ma non sopporta i cornetti che ti sembra di mangiare cartone. Conosco gente che è disposta ad attraversare mezza città, fare deviazioni, prendere un treno un’ora prima pur di fare colazione con una brioche fresca e ben fatta e, tuttavia, mal si adatta all’ambiente borghese e consuma l’amato cornetto sentendosi in un mondo a parte. È come vivere scissi in due dall’amore per la brioche, metafora della divisione sociale secondo cui se sei popolo mangi quel che passa il convento, se sei fighetto opti per l’arredo elegante e la pasticceria.

UNA SOLA cosa è uguale ovunque, le abitudini, che si manifestano in tanti piccoli gesti: stesso posto a sedere, stesso tipo di caffè o cappuccino, stessa brioche. Trasversale per età è anche la lotta per il giornale, combattuta soprattutto dagli anziani. Che siano frequentatori del bar sport o di quello elegante, pensionati agiati o male in arnese, tutti si litigano il quotidiano del bar e se, quando arrivano, lo trovano occupato, guardano con odio l’avventore che se ne è impossessato. Sono ormai rari quelli come un mio amico che ogni mattina arriva al bar con il proprio giornale, va al tavolino prediletto e guai se qualcuno gli rivolge la parola mentre legge sorseggiando il caffè. Quando ha lasciato la città per andare a vivere in riva a un lago, siccome in quel paesino non c’era un Caffè, ha fatto di tutto per farne aprire uno a una cooperativa di giovani. Fra lui, i maniaci della brioche e gli orfani della Bovisa non saprei a chi dare la medaglia di Campione della vita da bar.
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