Quel 27 ottobre a Istanbul splendeva il sole. Se lo ricorda bene Amel anche se sono passati cinque anni perché non era un giorno come gli altri. Per lei e per i suoi «casuali» compagni di viaggio era «il giorno», quando cioè gli scafisti li avrebbero portati dall’altra parte, sull’isola di Lesbo, in Grecia, il loro «visa» per l’Europa. Amel era consapevole dei rischi, sapeva i pericoli di questo viaggio ma, come racconta oggi, non aveva scelta. Khaled, il suo compagno, era riuscito a arrivare in Germania grazie a un invito alla Doc Station del Berlinale Talent per un progetto di documentario sulla rivoluzione siriana (Jellyfish, ndr) e a quel punto aveva deciso di chiedere asilo. Dice: «Con Amel ne avevamo discusso a lungo, avevamo consultato dei legali, lei poteva raggiungermi. Quando ho presentato la domanda alle istituzioni tedesche mi hanno fatto un biglietto del treno e da Berlino sono stato mandato in un campo per rifugiati verso il confine con la Polonia, una base militare abbandonata dove c’erano almeno 1700 profughi che arrivavano dal Medioriente, dall’Asia, dall’Europa dell’est».

SIRIANI, Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed si erano conosciuti tempo prima, lui fotografo e videoartista, studi a Damasco e a Nicosia, lei artista e marionettista, aveva frequentato giornalismo all’università del Cairo e poi una scuola d’arte a Berlino e a Lipsia. Avevano cominciato a lavorare insieme – il loro primo film, è backyard -, con la guerra avevano lasciato la Siria per spostarsi a Beirut e dopo a Istanbul, dove però la situazione per loro era molto complicata da vivere.
COSÌ mentre Khaled attende la sua risposta, Amel prova a partire, chiede un visa turistico per la Germania che le viene rifiutato, ci riprova con l’invito a una residenza per artisti ma è ancora un no. «Dicevano che il mio passaporto era falso anche se era stato rilasciato dal governo siriano, non riuscivo a capire». È allora che inizia a pensare agli scafisti, Khaled non è d’accordo, ma lei ormai ha deciso. «Non è stato semplice – ricorda – Avevo conosciuto molti rifugiati che partivano in quel modo, ci scambiavamo informazioni, contatti».

Le avevano suggerito di cercare gli scafisti che utilizzavano una barca di legno, costavano di più ma erano più sicuri, perché di solito cercavano di portarla indietro: «Sapevo che era pericoloso però mi tranquillizzava l’idea di non essere sola, la distanza tra la costa turca e Lesbo sono solo trenta minuti, volevo andare via in ogni modo così con un amico ci siamo organizzati per partire insieme». Che qualcosa non funzionava come previsto Amel lo ha capito subito, appena salita sul bus che li portava verso il luogo della partenza: «Eravamo 15, uno addosso all’altro, non si respirava, dovevamo stare nascosti, le macchine della polizia ci affiancavano di continuo. Avevo paura, Quando siamo arrivati c’erano almeno una quarantina di persone a aspettare, sembrava un film, tutto era molto misterioso. Mi sono domandata quanto poteva essere grande la barca finché non ci hanno chiamati dicendo di sbrigarci perché la polizia turca poteva essere lì da un momento all’altro. Quando ho visto la nostra imbarcazione mi è stato chiaro che non avrebbe mai potuto contenerci tutti».

CON sé Amel ha un i-phone, un Ipad e una telecamera waterproof: «Volevo filmare ogni istante, non avevo mai immaginato di vivere un’esperienza simile, volevo conservare quel girato come una forma di memoria, condividerlo con Khaled, la telecamera era facile da nascondere e ho iniziato a riprendere subito». Quello che è accaduto dopo, purtroppo, è quanto ogni giorno, ogni momento succede i migranti sui nostri mari: appena sono bordo gli scafisti scendono e li lasciano da soli, la barca inizia a fare acqua – «La gente gridava, vomitava, gettava via le borse, per primi quelli che stavano sotto, io e il mio amico eravamo sul ponte, lui aveva insistito a rimanere fuori perché voleva guardare il paesaggio» – e poco dopo finscono in mare. Amel continua a filmare, continuerà a tenere accesa la sua telecamera per tutte le interminabili ore in acqua aggrappata a qualcosa, aspettando i soccorsi – «Avevamo visto una barca di Frontex in lontananza, ma non si sono mossi subito…». Il mare è gelido, le onde alte, in tanti come lei non sanno nuotare, comunque sarebbe impossibile.

Quelle immagini sono diventate Purple Sea, che Amel e Khaled firmano insieme, presentato in anteprima alla scorsa Berlinale (Forum) era in concorso a Visions di Réel, il festival di Nyon che si è chiuso ieri, andato con grande successo online. A produrre il film è pong, giovane e dinamica società di produzione berlinese che è stata accanto a Amel e a Khaled sin dall’inizio nelle pratiche burocratiche e in molto altro.

Cosa racconta Purple Sea (montato da Philip Scheffner)? Le immagini mostrano solo piedi e gambe sospesi sotto l’acqua, in una impressione di calma della superficie che le distacca dal contesto, come se non appartenessero alla cineasta. In contrasto, però c’è la prima persona di Amel, l’emozione delle parole che narrano i suoi sogni , l’ amore, Khaled, i loro progetti insieme, il suo Paese, la Siria, il dolore per quello che è stata costretta a vivere. E la rabbia, la paura, i soccorsi che non arrivano mai. Gli oggetti fluttuano, si perdono, le gambe continuano a annaspare coi vestiti incollati nell’acqua cercando di resistere, di lottare contro il freddo, la fatica, la morte. E quella che nell’informazione appare ormai come un’immagine «svuotata» – ci dice invece qui, in questa distanza che ognuna di quelle storie presentate come numeri, statistiche è unica, riguarda qualcuno coi suoi affetti, i suoi desideri, le sue speranze. È parte di noi.

Con Amel e Khaled parliamo su Skype, oggi vivono a Lipsia e hanno una bimba di 20 mesi. «La mia telecamera è sempre stata nascosta – spiega Amel – A un certo punto, mentre ero in acqua non l’ho più controllata, per questo dico che quanto vediamo è ripreso dalla sua prospettiva».
Cosa ricordi di quei momenti?
Quando mi hanno tirata fuori e quando sono arrivata nel porto, era buio. Tutto ciò che è avvenuto prima l’ho scoperto dalle investigazioni, ricordo che ho rivisto qualcuno del gruppo dove venivamo registrati. Sono rimasta dieci giorni in Grecia, a Atene, a casa di una coppia, persone meravigliose. Poi col mio amico siamo ripartiti, abbiamo viaggiato in autobus da Salonicco passando molti confini, la Macedonia,, la Serbia, ai controlli dicevamo che volevamo andare in Germania e non ci registravano. Nel 2015, la situazione era meno dura di adesso. Siamo arrivati a Bonn dopo cinque giorni, c’erano degli attivisti che ci hanno aiutati, da lì sono partita per Berlino dove mi aspettava Khaled.

Quando hai deciso di fare un film con queste immagini? Hai avuto bisogno di tempo per guardarle?
In realtà ho avuto subito voglia di vederle, volevo capire cosa c’era lì di quello che avevo vissuto, quanto i filmati corrispondevano ai miei ricordi. Khaled invece si rifiutava, sbirciava lo schermo ma ci ha messo un anno prima di guardarle per intero. Anche io però ho impiegato molto tempo, le scorrevo, saltavo avanti e indietro, cercavo qualcosa. Provavo la stessa sensazione di soffocare di quei momenti, e al tempo stesso non trovavo ciò che avevo vissuto, che ricordavo, che era rimasto nella mia memoria. Certo, riconoscevo qualcosa, come il rumore degli elicotteri, ma forse perché in una situazione simile ci si concentra su altro. Ero arrabbiata con gli scafisti perché ci avevano lasciati sulla barca, coi soccorsi che ci avevano impiegato tanto tempo, e persino con me stessa, detestavo vedermi in quella situazione. Sapevo però che dovevo fare qualcosa per questa rabbia, per questa frustrazione, e quei materiali non potevano essere ignorati. Ci siamo consultati con alcuni avvocati per capire se non poteva essere rischioso utilizzarli, poi abbiamo incontrato degli esponenti della Forensic Architecture (l’architettura forense con sede Londra che indaga e ricostruisce le violazioni dei diritti umani, ndr). Parlando con loro ho cominciato a capire meglio come volevo raccontare la mia storia.

Cioè?
Non potevo parlare di qualcun altro, ero io la protagonista e come tale dovevo essere riconosciuta. Perché quello che viene rappresentato come un gruppo, i migranti, è formato da individui, ciascuno con la sua vita, i suoi affetti, e prendere una decisione simile è difficile, non ha nulla di naturale.

Però «Purple Sea» è costruito su un dispositivo molto chiaro: ci sei tu con la prima persona della tua vita nella voce narrante, e c’è una distanza nel punto di vista delle immagini.
Non volevo vedermi come una vittima, sono un’artista e la distanza è quanto mi permette di rielaborare. Il lavoro è stato un po’ come una terapia, non è stato facile arrivare alla forma che ha preso il film. Ho combattuto coi materiali, ripeto odiavo vedermi nell’acqua e non mi piaceva neppure vedere gli altri in quella situazione. Sott’acqua invece si creava quasi una suspence, era come in un horror, ed era anche diverso dalla massa di immagini che vediamo. Questa prospettiva mi aiutava a ottenere la distanza di cui avevo bisogno, a dire ciò che mi premeva senza retorica, mentre la mia presenza era data dal testo. Ognuno di noi, ogni persona che sta in acqua ha qualcuno che lo ha aspetta, ha un progetto, un sogno per questo è importante che la dimensione individuale si affermi in un racconto che è per forza anche collettivo.