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Si chiama In tempo di guerra (Lorusso editore, pp. 185, euro 11), ma in realtà solo il racconto che regala il titolo all’intera raccolta, il più lungo e il più ambizioso, quasi un romanzo breve, si svolge sullo sfondo di una guerra. Una di quelle come se ne combattono un po’ ovunque sin dalla fine del XX secolo: senza eserciti e stati maggiori, senza una precisa e ben definita linea del fronte. Uno di quei conflitti civili che lacerano le città e le spaccano in due, come a Beirut o Sarajevo o anche Gerusalemme, e travolgono così le antiche e ormai quasi dimenticate distinzioni tra civili e combattenti.

L’autore è Alessandro Pera, ex brigatista approdato alla letteratura dopo gli anni delle armi e quelli della galera, che con il precedente Afa era arrivato, senza nessun potentato alle spalle, alla candidatura per lo Strega. Pera sa che nella modernità guerra e pace non sono più dimensioni alternative, distinte e distinguibili. Si lambiscono e si intrecciano, come sarebbe stato un tempo non immaginabile. Dunque racconta da un lato la normalità di una guerra divenuta abitudine quotidiana, dall’altro una pace bellicosa, fatta di rabbie e frustrazioni e rancori che, se ancora non sono l’esplosione, almeno la preparano e la spiegano in anticipo.

La città in cui è ambientato il racconto principale è immaginaria. La sua condizione, invece, strettamente realistica. Da una parte i quartieri popolari, isolati dopo una rivolta. Dall’altra la roccaforte dei quartieri alti, protetti da bastioni, sorvegliati dalle milizie armate. È una guerra strisciante, travestita da pace, un conflitto che mima la normalità, proprio come capita in tutte le guerre civili moderne, una battaglia in cui vince chi falcia più civili.
L’anonimo protagonista è un civile, lo conosciamo solo come M.: un ragazzo che di guerra campa, grazie a un proficuo mercato nero, e per la guerra si dilania. Perché M. è anche innamorato, e si tormenta per la gelosia della sua Bella, che vive dall’altra parte delle mura, nella città alta e ricca. Tormentato dal desiderio e dalla gelosia, M. sceglie il giorno peggiore di tutti per tentare di passare clandestinamente il confine, insieme a un gruppetto di disperati che come lui sono pronti a tutto pur di avere notizie di qualcuno molto amato che vive al di là della linea del fuoco: a un passo, eppure irragiungibile senza rischiare la pelle.

Pera è bravissimo nel descrivere nei particolari la condizione della città diventata campo di battaglia, l’intreccio da incubo tra le vestigia di una normalità recente e la ferocia del conflitto che si è sovrapposta a quella normalità senza sostituirla del tutto. Descrive, senza concedere un rigo alla retorica, non la guerra ma una forma specifica e assolutamente moderna della guerra: quella in cui tutto si mischia e la condizione d’emergenza ed eccezione diventa a modo suo quotidianità.
Nonostante un colpo di scena finale che strapperebbe l’applauso a Hitchcock, il racconto un po’ risente della sua forma ibrida, che arriva giusto sul confine con il romanzo senza però varcarlo. L’ambientazione funziona perfettamente. I personaggi, non solo il protagonista ma tutta la disomogenea combriccola che cerca di passare da una parte all’altra della città strisciando sotto terra, avrebbe meritato qualche attenzione in più.

Gli altri racconti, più brevi e folgoranti, narrano invece una pace che è tale solo di nome: cupa e traversata da tensioni latenti, una pace da stato d’assedio. Che si tratti di giovani precari che per quattro soldi smontano il palco di un concerto, oppure di attempati pensionati esiliatisi in una stanza col televisore come unico compagno, o ancore di un mesto amore di periferia che forse è solo il sogno di chi campa un’ancora più mesta esistenza, i racconti di pera descrivono un’esistenza senza gioia né emozioni: un universo senza speranze non perché moncato dei suoi sogni ma perché ridotto a considerarli in partenza e per definizione irraggiungibili.

Di contro la guerra civile, con la sua disperazione e la sua miseria, con le sue milizie armate e i civili che finiscono coinvolti quanto e più dei miliziani stessi, si rivela a modo suo più vitale, a una pace armata in cui ogni passione è spenta, corrisponde una conflittualità permanente che invece permette alle emozioni e ai sentimenti di circolare molto più liberamente di quanto non sia dato ai corpi costretti nei confini angusti delle due metà della metropoli armate l’una contro l’altra.
Forse l’elemento più interessante del libro di Alessandro Pera, preso nel suo insieme, è proprio in questa contrapposizione, scevra di ogni ideologia, tra due dimensioni, la pace e la guerra, che dovrebbero fronteggiarsi come il bene e il male, e invece, qui ed ora, nella situazione data, non possono più farlo.