Quando è che un amore finisce, quando i gesti di ogni giorno appaiono diversi e quello che era sempre stato bello, dolce, che ci piaceva, che era tenerezza rassicurante diventa estraneo? E poi: ci si può ancora amare pur massacrandosi all’impossibile? Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver) vivono a New York, per tutti sono una di quelle coppie che non finirà mai. Tra loro era stato un colpo di fulmine, lei in fuga da Los Angeles, e dai suoi esordi di attrice in un teen-movie, lui regista teatrale off-Broadway che nel tempo ha conquistato le prime pagine e il successo di cui lei è musa e protagonista.. La compagnia è come una famiglia, hanno un bambino, Charlie è padre amorevole e premuroso, le debolezze e i punti di forza sembrano coincidere in un magico incastro.

FINCHÉ all’improvviso eccoli davanti al mediatore familiare, che è dove si comincia: cosa è successo? Nicole è stanca, vuole tornare a Los Angeles, si sente offuscata da Charlie che è molto svagato e non capisce (o non vuole capire) cosa sta succedendo, lei che ha avuto una parte in una serie tv, si porta il bimbo, è solo per poco, sarà per sempre. Arrivano gli avvocati – tipologia implacabile – l’accordo amichevole si trasforma in una guerra. Possibile? Eppure era amore…
Storia di un matrimonio era uno dei film più belli nel concorso dell’ultima Mostra di Venezia, non ha vinto nessun premio – peccato perché i suoi protagonisti, Adam Driver e Scarlett Johansson offrono una delle loro prove più alte (e si parla di una nomination ai prossimi Oscar), la sceneggiatura mai invasiva, libera da forzature si fonde nel flusso delle emozioni.

A PRODURLO è Netflix – chissà se anche questo ha influito nelle decisioni dei giurati? – che lo metterà sulla piattaforma il 6 dicembre, mentre nelle nostre sale – sempre con la Cineteca di Bologna – uscirà il 18. Baumbach, l’ispiratore della «mumble comedy», in questa sua personalissima rilettura bergmaniana della commedia romantica – ma all’inverso – tra East e West Coast affronta quanto di più difficile nella sua universalità letteraria, la fine di un rapporto, riuscendo a coglierne i movimenti interni, le banalità, la grana grossa e quella impalpabile nella scrittura (sua la sceneggiatura) che si fa corpo a corpo tra i suoi magnifici protagonisti – Driver e Johansson.

Sta a loro stupirsi, gridare, piangere, lasciarsi divorare da una crudele ostinazione, cedere ai momenti di tenerezza quasi che fossero sempre lì, nascosti da qualche parte per trasformare il «mumble» – pure se si parla moltissimo – in una tessitura emozionale violenta e insieme di dolcezza. Intanto i sentimenti si espandono, rimbalzano, piroette, saette, una lotta, si schermano dietro al potere degli avvocati – quella di lei magnifica Laura Dern arrampicata su tacco 12, sempre dalla parte delle donne – «perché a un padre si perdona tutto a una madre no, Maria era vergine e Dio stava lassù …» – quello di lui – Ray Liotta, – l’opposto macho in fondo però uguali nella ricerca della vittoria che è la propria affermazione instillando alla coppia una diversa visione del vissuto comune.

I DUE si insultano, sei come tua madre, sei come tuo padre, usano il bimbo che ora dorme nel letto con la mamma – a casa della nonna – «Quello che odiavi di te da piccola». E il ragazzino che è dislessico a Los Angeles perde i suoi progressi però col padre che all’iPad preferisce lo sforzo della lettura e al costume da Ninja uguale ai cuginetti quello fatto a mano da Frankenstein non vuole stare. Baumbach percorre i luoghi della commedia – e di altri «generi» il legal drama, il musical … – le geografie del paesaggio (immaginario) americano; Los Angeles contro New York, Hollywood (le serie televisive ormai) contro l’underground, l’alternativo contro il pop, (forse) l’autofinzione – il divorzio con Jennifer Jason Leigh – per diluirli nei personaggi, nella loro messinscena.

Perché è un teatro quello a cui danno vita che graffia ruvidamente la realtà in cerca di uno spazio vuoto dove sia possibile ancora incontrarsi: uno sguardo, un sorriso, un dettaglio in cui si affermi quella complicità soffocata da quanto c’è intorno. E la regia vi si avventura tra commoventi sliding doors e frammenti di narrazione senza retorica, senza mai perdere l’equilibrio, senza cercare schieramenti o chi manipola chi: da una parte il sistema legale, dall’altra i due manipolati reciprocamente e forse manipolatori.. Era lui a decidere o non è piuttosto lei a avere preso in mano la sceneggiatura delle loro esistenze? Poco importa..Le immagini cercano e colgono la sostanza delle cose, delle relazioni, del nostro tempo, dell’umanità, fragile e piena di rischi. Being alive (I’ve Being Loving You Too Long).