Leggo sul Corriere della Sera di ieri (articolo di Maria Serena Natale, Il lessico dell’amore, vedi errata corrige in calce, ndr) una frase di Julia Kristeva, pronunciata all’iniziativa Il tempo delle donne, organizzata dal quotidiano milanese: «…nel quindicesimo anniversario dell’11 settembre dobbiamo ricordare che è l’amore il centro della nostra civiltà». L’amore viene definito nell’articolo una creatura di donna, invenzione da esplorare, cura dell’altro che va rispettato nella sua irrevocabile alterità, e ancora «l’amore che ferma la morte».

Qualche pagina prima un altro titolo parla dell’«inferno di Elisa», uccisa a coltellate dal suo ex a Parma, ennesimo uomo che non si rassegna a rispettare «l’irrevocabile alterità dell’altro», in questo caso la donna per la quale il loro amore era irrevocabilmente finito. Ma lui continuava a amarla, a desiderarla fino al punto che l’ha uccisa.

Dovremmo definitivamente convenire che questo orribile sentimento non può più essere chiamato amore. Ma resta da scandagliare quello «spazio oscuro nel profondo dei corpi» – un’espressione della vicedirettrice del Corriere Barbara Stefanelli – in cui «crescono le radici della violenza» maschile contro le donne che si esercita con cadenza quasi quotidiana.

Stefanelli, evocando il ’68 e gli anni ’70 del primo femminismo parla di una rivoluzione sessuale incompiuta, e lo fa dal punto di vista femminile. Credo che tocchi anche e soprattutto a noi maschi interrogarci sui limiti di quella rivoluzione, che pure c’è stata, l’abbiamo vissuta.

Il discorso del rapporto tra sessualità e qualità delle relazioni, tra corpi e politica, se politica è tutto ciò che si riferisce al vivere in comune, è stato aperto in quegli anni ma non lo abbiamo approfondito e elaborato più di tanto.

Sono interrogativi che circolavano domenica mattina in un altro contesto, la riunione di Via Dogana3 alla Libreria delle donne di Milano, con a tema il non ovvio nesso tra algoritmi e ragazze. Il discorso di un amore che vada insieme alla libertà può affermassi quando il linguaggio è sovradeterminato dalle procedure automatiche della tecnologia e del potere?

Una ragazza giovanissima ( appena uscita dal liceo classico) raccontava della rabbia accumulata di fronte a frasi sessiste e razziste a cui reagiva da sola, senza l’aiuto delle amiche presenti. Però con lei domenica c’erano altre amiche solidali e anche alcuni amici giovanissimi e pronti a dirsi pubblicamente «femministi».

Quei ragazzi sono il segno di un cambiamento, anche se a scuola non si impara niente del ’68 e del femminismo?

Forse non è vero che «nascere maschi è una malattia incurabile», come ha detto Edoardo Albinati: lui stesso ha chiesto di estrapolare meglio la frase dal contesto, fermandosi alla parola «malattia» intervista a Antonella Fiori su Metro del 13 luglio scorso). E ha suggerito che la ricerca di una affettività diversa degli uomini possa avvenire anche grazie a una più aperta conoscenza tra maschi, non ripetendo la ossessiva richiesta di cura oblativa alle donne.

È in questa logica dello scambio e dello mettersi in gioco anche pubblicamente che qualche centinaio di uomini ha aderito all’idea di una iniziativa intitolata Primadellaviolenza. In realtà si vanno delineando eventi diversi per giornate di incontro in varie città – Genova, Roma, Milano, Livorno – nella settimana di ottobre che va da sabato 15 a domenica 23.

Approfitto di questo spazio per rilanciare l’invito a aderire e soprattutto a avanzare proposte, domande, racconti di esperienze, critiche. Si può fare sulla pagina facebook Primadellaviolenza, e inviando materiali all’indirizzo primadellaviolenza@gmail.com.

Errata corrige

Nella versione di questa rubrica in edicola il 13 settembre ho attribuito a Luisa Pronzato un articolo sul Corriere della sera di lunedi che invece è di Maria Serena Natale, me ne scuso con entrambe.

Alberto Leiss