«Un film bellissimo, un classico del cinema messicano e mondiale, un tributo all’amore e alle difficoltà che si devono affrontare per raggiungerlo». Così Martin Scorsese presenta Enamorada (1946), uno dei film che fondano quella che viene definita «l’età d’oro» (fra gli anni Trenta e i Sessanta) del cinema messicano di cui il suo regista, Emilio Fernandez, detto El Indio – è stato il principale protagonista. Il film che torna in sala l’8 aprile grazie alla Cineteca di Bologna – dopo la proiezione alla scorsa edizione del Cinema Ritrovato – bianco e nero magnifico di Gabriel Figueroa (che sarà il direttore della fotografia di Buñuel e di Ford) a cui il restauro della Fondazione di Martin Scorsese ha restituito la fisicità sensuale, è uno di quegli eventi da non perdere visto quanto poco sappiamo in Italia (al festival di Torino di molti anni fa c’era stata una prima e ottima retrospettiva nel 1997 con la pubblicazione di un libro per Lindau) della storia di quella cinematografia da cui arrivano registi oggi molto premiati come Cuaròn o Guillermo Del Toro. E se il melò di amore e rivoluzione che oppone il generale ribelle José Juan Reyes all’indomita Beatriz, rampolla di una ricchissima famiglia, piena di disprezzo per i rivoluzionari sembra distante dagli universi dei registi citati, a avvicinarli c’è la stessa passione per il cinema americano e il tentativo di tradurlo liberamente nella propria realtà.

Fernandez (1904 – 1986) ripeteva spesso: «Il cinema messicano sono io!», anche se è una delle molte leggende che lo circondano e che rendono la sua figura di regista inseparabile dal suo cinema n on è poi così lontana dal vero. Lui stesso amava arricchire il proprio mito con aneddoti e descrizioni di sé rivendicando la sua parte india – un altro grande rimosso in Messico è più in genere in America latina – da parte di madre, che era Kikapu, a cui aveva dato un posto e una voce nell’immaginario popolare che coi suoi film ha formato. Nel cinema, diceva, la cosa più importante è l’istinto – insieme alla sensibilità: «Sono una specie di barometro». E i suoi film vivono nel conflitto tra passione e equilibrio formale, contraddizioni e slanci improvvisi, modernità e tradizioni, e soprattutto il sentimento della lotta. Fernandez era stato rivoluzionario, nel 1924 aveva partecipato a una rivolta contro il presidente Obregòn, arrestato era evaso e fuggito in America.

ARRIVATO a Los Angeles aveva fatto ogni mestiere, fino alla comparsa a Hollywood, che è il suo ingresso ufficiale nel cinema. Nel 1941 realizza il primo film, L’isola della passione, anche questo un melodramma ambientato nella rivoluzione. Era stata la sua storia, il suo vissuto come Enamorada che si svolge nel 1921 – il generaleReyes è vicino a Pancho Villa che a combatteva per riscattare i contadini e dare loro la terra – a cui Ferdandez unisce il ritmo della screwball comedy nello scontro tra la fanciulla indipendente e il macho. Gli attori sono Pedro Armendariz e Maria Felix, la Doña, eroina indomita e icona amatissima di quell’immaginario tra di rivoluzione, popolo, indios, donne e e uomini che Fernandez aveva creato rivendicando per il «suo» Messico una immagine propria, contro le rappresentazioni (e agli esotismi colonialisti) del cinema americano, capace di illuminare quei paradossi occultati, il ruolo del clero per esempio, più spesso vicino ai potenti, che incanta i poveri con le promesse della vita eterna – come dice Reyes: «Ho fede nella vita e non nella morte, si deve stare bene in questo mondo».

«VOI non potete fermare il progresso anche se ci distruggerà» ripeteva spesso El Indio: un bordo come quello su cui vivono i suoi personaggi sospesi nel confronto, anche ingiusto, tra sé stessi e e il proprio mondo. Forse quei cieli e quelle nuvole diventeranno a loro volta modelli da rompere, ma Fernandez – che Peckinpah volle in Il mucchio selvaggio nel ruolo del generale Mapache – è stato un pioniere a fissare un’epoca e una narrazione. Rivoluzionarie.