La prosa narrativa di Alan Pauls è considerata dalla critica una delle più variegate e complesse della recente letteratura rioplatense: cresciuto alla scuola di Ricardo Piglia, Pauls ha lavorato inizialmente come sceneggiatore per il cinema, e dopo aver pubblicato alcuni racconti (tra i più memorabili «Il caso Berciani» in una antologia dedicata a Buenos Aires, curata da Juan Forn e pubblicata da Anagrama) vinse il Premio Herralde nel 2003 con Il passato, uscito nel 2007 da Feltrinelli e ora riedito da Sur (pp. 599, euro 20,00). Compose in seguito, fra il 2007 e il 2013 – la sua Trilogia della perdita (Storia del pianto, Storia dei capelli, Storia del denaro) in cui ha affrontato da una prospettiva non convenzionale il decennio degli anni settanta. Ha anche insegnato Teoria Letteraria, scritto saggi letterari (in italiano, è stato tradotto Sur nel 2016 Il fattore Borges) e tradotto autori statunitensi fra i quali Truman Capote. Con lui abbiamo ripercorso le diverse tappe della sua traiettoria letteraria, considerata ormai come un punto di riferimento per tutta una generazione di scrittori che si sono formati nel decennio più tragico della storia argentina recente.

A quindici anni dalla prima pubblicazione di «Il Passato» lei dovrebbe avere guadagnato una prospettiva tale da poterne dare un giudizio abbastanza distaccato: cosa pensa le sia rimasto di quella esperienza, considerando che in seguito non avrebbe mai più scritto un romanzo altrettanto lungo?

In effetti quello mi bastò, e d’altra parte non sono mai stato troppo favorevole alla scrittura di romanzi estesi su molte pagine. Direi di essermi piuttosto trovato a mio agio con il formato della novella e quando iniziai a scrivere Il passato in realtà mi persi un po’ nella narrazione, che prese poco a poco proporzioni per me quasi mostruose. Ebbi allora l’impressione, e l’ho mantenuta ancora oggi, che fosse un romanzo di ambizione pressoché incomprensibile perfino per me: è stato un po’ un tentativo di immergermi nell’esperienza amorosa per esaurirla, quasi per volerne dire una parola definitiva. Vivere per cinque anni nello stesso mondo di finzione è qualcosa di molto specifico: il libro si assimila all’ambiente in cui vivi. Non sono mai stato un sostenitore del romanzo totale, ma nello stesso tempo so di avere un rapporto importante con i grandi titoli modernisti del ventesimo secolo. Per me, tuttavia, quella fase è chiusa, non credo che tornerò mai a scrivere un romanzo così lungo.

Il passo successivo lo ha speso dedicandosi alla «Trilogia della perdita», per la quale ha eletto tre «oggetti» – il pianto, i capelli, il denaro – che diventano le ossessioni dei rispettivi protagonisti delle tre storie. Come mai questa scelta?
Per affrontare un decennio così sovraesposto come gli anni settanta in Argentina avevo bisogno di uscire dalla versione da noi più convenzionale, quella che in un certo senso li ha «sceneggiati» dal punto di vista storico, politico, culturale. Ho scelto dunque questi tre «fossili» – il pianto, i capelli e il denaro – in modo forse un po’ arbitrario; ma mi sembravano evocativi di una certa sensibilità dell’epoca, che per me era molto importante ricostruire. In tutti e tre i libri non si parla della storia in modo diretto, bensì si mostra come si forma la sensibilità in un ragazzo che ha undici anni nel 1970, diciassette nel 1976 – l’anno del golpe militare – e ventuno nel 1980, ricalcando un po’ anche quella che è stata la mia vita, perché nel bene e nel male, mi sento figlio di quegli anni. Non li rinnego, so che fu un’epoca complessa e mi provoca inquietudine: è un’epoca sulla quale non trovi pace. La sfida del mio progetto stava nell’andare a cercare la storia dove non sembrava doverci essere. Sono tre romanzi brevi, ma ci lavorai per sei o sette anni.
La narrativa contemporanea ormai sempre più spesso esibisce una scrittura rapida, paratattica, fatta di frasi corte, a volte quasi ossessiva, con molti dialoghi in stile cinematografico o teatrale. Lei smentisce questa tendenza: la sua è una prosa complessa, ricca di frasi subordinate, di digressioni sintattiche, che forse diventano un po’ un incubo per chi la traduce…
Direi che è piuttosto una questione di ritmo, bisogna entrarci e se non ci si riesce è meglio abbandonare. Comunque, è vero, la mia è una scelta di campo: mi intristisce un po’ vedere come l’uso della lingua adotti una sintassi che sembra fatta per lettori stranieri. Non ho niente contro le frasi brevi: in molte delle soluzioni radicali di Beckett, per esempio, si possano ritrovare esperienze analoghe a quelle di Proust, che è invece un amplificatore di subordinate. La lingua continua a mostrare una straordinaria potenza, che merita di essere esplorata in tutte le sue dimensioni, è un tesoro ma non nel senso di un archivio, o di un deposito, lo è in quanto orizzonte di possibilità e scavarla è un po’ la missione della letteratura. D’altronde mi pare ci siano lettori, anche non tropppo sofisticati, capaci di sintonizzarsi su queste frequenze, semplicemente impegnandosi un po’ all’inizio, per poi lasciarsi trasportare. La letteratura che mi piace è quella che condivide questa attitudine.
Proprio in questa direzione, troviamo nei suoi romanzi una specie di «arte della digressione»: storie intercalate, con un taglio alla Cervantes, di cui alcune occupano poche pagine, altre interi capitoli, come nel «Passato», o anche nella «Trilogia»: le usa per restituire uno spettro più ampio della realtà o per dare spazio a figure apparentemente secondarie, o per altri scopi?
Per me questa strategia equivale a mantenermi fedele alla tradizione del romanzo più pura – aggettivo che non mi piace ma qui mi sembra adeguato – da Cervantes a Sterne: qualsiasi grande romanziere classico sa che scrivere un intreccio significa perdercisi, distrarsi continuamente, non limitarsi a raccontare una sola storia. Mi piace molto l’esperienza letteraria che implica il fatto di disorientarmi nel mondo descritto piuttosto che essere trascinato verso una sola direzione e cerco un lettore che accetti a sua volta di smarrirsi in questo gioco piuttosto che venire sequestrato da una trama fatta di un solo argomento. Peraltro, mi è molto difficile concentrarmi su una sola linea narrativa: per me leggere – anche la realtà, non necessariamente qualcosa di scritto –, si risolve in un esercizio di ramificazione, di sdoppiamento, di moltiplicazione. E la digressione mi sembra sia la forma che il romanzo ha trovato per sintonizzarsi meglio con il nostro mondo.
Il protagonista di «Il passato», Rímini, è un traduttore e un interprete che si dedica al suo lavoro come fosse una sorta di droga dalla quale ricava piaceri pressoché sessuali, arrivando a guadagnarsi una sorta di dipendenza. In una passata intervista lei ha affermato che quella del traduttore è forse l’ultima lettura filologica. Come interpreta questo lavoro, cui si è anche dedicato in prima persona?
Ho parlato della traduzione come ultima esperienza di lettura filologica nel senso che la vedo come un close reading. A volte il lavoro del traduttore è vicino a una forma di pazzia, basta poco per spingerlo alla demenza. Chi dedica trenta, quaranta anni della sua vita a tradurre sembra vivere in un mondo che non è esattamente il nostro, ma non è nemmeno quello di uno scrittore, già di per sé suscettibile di essere abbastanza stravagante. Mi sembra che i traduttori siano obbligati a stabilire un rapporto con i testi così esigente come non lo troviamo più nemmeno nella critica, o nei testi di teoria letteraria. Sono personaggi quasi medievali, come gli antichi copisti che riproducevano i testi sacri dovendo mantenerne un rispetto assoluto; e al tempo stesso sono personaggi assolutamente contemporanei, anzi decisivi per la nostra epoca, perché funzionano come filtri: nel mondo editoriale dei grandi trust, nessuno legge più nelle lingue originali, solo i traduttori, che hanno dunque sempre più importanza per la circolazione della letteratura.
Nell’ultima frase di «Il passato» lei scrive che i due protagonisti «si dissanguano»: è la stessa espressione che usa Ricardo Güiraldes alla fine di un grande classico argentino, Don Segundo Sombra. Com’è possibile che questo accada tanto nel 1926, quanto ancora negli anni 2000: ovvero, che in Argentina per definire la propria identità – personale ma in qualche modo anche collettiva – sia necessario cavarsi il sangue?
La cultura argentina ha a che vedere con l’agonia, con la cancellazione, con l’estinzione di se stessi: gode mentre periodicamente si autoestingue. La sua lettura è per me interessante, perché contraddice il fatto che Il passato è stato interpretato come un romanzo che avrebbe potuto essere stato scritto in qualsiasi parte del mondo. Non per me: io lo sento come un libro molto argentino, in cui l’assenza della dittatura nella trama rimanda alla drammatica ovvietà della sua esistenza, e in cui l’unica data certa che cito nelle cinquecento pagine del romanzo è il 1976, l’anno della dittatura militare, appunto.