Vladimir Sorokin nasce dalle cucine fumose e dagli atelier di fortuna dove, negli anni settanta e ottanta, i letterati e gli artisti clandestini, in una comunanza di intenti estetici di rara intensità, decostruivano l’assurdo quotidianizzato della realtà sovietica, piegando il concettualismo in un’ottica essenzialmente letteraria. Qui Sorokin si è conquistato la fama di miglior talento dissacratore, con una leggendaria aura di coprofilia e sadismo. Con l’avvento del mercato, è partito il suo trentennale successo, coerentemente perseguito alternando la provocazione a strategie narrative più compatte, sempre scatenando veri e propri shock ma con qualche concessione a un invidiabile ruolo di «istituzione» fuori le righe.

Noto al pubblico italiano per il giovanile La coda, delizioso ma del tutto sobrio quadretto della verbalità sovietica, e per Ghiaccio, primo romanzo di una trilogia che proietta in chiave cosmica e mistica un secolo di storia russa, ha visto negli ultimi anni tradotta per intero la successiva trilogia distopica – La giornata di un opricnik, La tormenta, Cremlino di zucchero – dove il putinismo viene ibridato con la Russia di Ivan il Terribile. Tra i libri non ancora tradotti, il romanzo che meglio riassume la poetica e i procedimenti di Sorokin, Lardo azzurro, e quello più terrificante ed enigmatico, I loro quattro cuori.

L’opera di molti scrittori contemporanei è caratterizzata dal citazionismo, dunque dalla parola altrui. Nel suo caso invece, grazie a uno straordinario dono mimetico, lei riproduce integralmente i meccanismi verbali di un determinato ambito letterario o socio-linguistico. Inizialmente questo processo riguardava la lingua sovietica, così compatta, codificata e grottesca che la sua clonazione aveva l’effetto di una carica esplosiva, e il tessuto stesso dei racconti si dilaniava all’epilogo in brandelli di indicibile violenza. Cos’è cambiato nel suo rapporto con la lingua dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica?
All’inizio degli anni ottanta mi occupavo di soc-art, una pop art alla russa basata sulla lingua sovietica, quella della letteratura ufficiale e dell’ideologia. Costruivo testi che somigliavano a delle bombe a scoppio ritardato. Tutto aveva inizio normalmente: i personaggi agivano secondo le convenzioni, poi cominciavano a esplodere e a fare cose tremende. Successivamente, a cominciare dal romanzo Roman ho cominciato a lavorare con la lingua dei classici dell’Ottocento, poi c’è stato Lardo azzurro, dove c’erano già altri procedimenti, una specie di lingua del futuro inventata da me. Adesso, quel che mi sta a cuore è che ogni libro sia diverso dai precedenti, così da attivare nuovi meccanismi linguistici, nuovi orizzonti culturali. Due mesi fa ho finito il mio ultimo libro, che è appena uscito in Russia, e si intitola Manaraga, il nome di una montagna nel nord degli Urali. Parla del futuro degli europei. Il protagonista è nato in Ungheria, da un ebreo bielorusso e una tatara di Crimea. Quindi, come vede ho cambiato la mia pelle letteraria. Quando, negli scorsi decenni è stato scritto che non avevo un mio stile, io rispondevo, con le parole del filosofo Lev Šestov: quando uno scrittore elabora un proprio stile, allora è morto.
L’essenza più profonda del suo metodo di scrittura consiste nel fatto che le sedicenti emozioni da lei messe in campo e le linee d’intreccio convergono nella ricerca e nel conseguimento di un qualche ipermetaforico superconcentrato di assoluta elementarità fisica: una madre liquida, letteralmente spremuta dai genitori sotto presse idrauliche, il ghiaccio, che indica l’appartenenza a una superiore fratellanza cosmica, il lardo azzurro, concentrato dell’energia creativa. Qual è, dunque, l’esatto ruolo di questa così particolare idea di materia nella sua poetica?
Tutto, anche la stessa madre liquida, va inteso come una metafora realizzata. Parto da un accostamento sintagmatico assolutamente impossibile, che non può essere associato a nulla nella lingua russa, e lo realizzo nel dominio letterario. Un essere umano spremuto, per esempio. O il lardo azzurro: qualcosa che in natura mai potrebbe esistere. Proprio in questo sta la forza della letteratura: può dare rappresentazione all’inesistente e, come nella fisica quantica, riesce a visualizzare ciò che non possiamo vedere. Ecco, la letteratura può essere ciò che in astronomia è un buco nero, o la materia oscura.
Oggi come ieri l’«io» è al centro delle opere letterarie: si va dall’autofiction di Venedikt Erofeev o di Sinjavskij, all’autore onnipresente dei saggi finzionali alla Viktor Erofeev. Al contrario l’estraniamento della sua parola è così radicale che il solo immaginare un qualsiasi ruolo dell’autore sarebbe comico. Eppure, non si nasconde da qualche parte nelle sue opere anche l’uomo-Sorokin?
Non sta a me trovarlo. C’era, negli anni ottanta, il gruppo di artisti performativi Muchomor, «fungo velenoso». Un giorno andai dal loro leader, Sven Gundlach, che aveva letto i miei testi e quello mi disse: «Mi aspettavo di vedere una persona completamente diversa, molto più vecchia di te, con la barba incolta, zoppicante, che vive da solo, si nasconde dal Kgb in mezzo alle discariche». Uno scrittore non dovrebbe rispondere alla domanda: dove sei tu? Da qualche parte sì, ci sono. Ma mi si vede meglio guardando dall’esterno.
A cominciare da «Il banchetto» e «Lardo azzurro» gli inserti verbali cinesi costituiscono una caratteristica costante delle sue opere degli ultimi quindici anni. Nel finale della «Tormenta»l’«arrivano i nostri» dei militari cinesi, con la loro indifferenza e un senso di superiorità da selvaggi, ricorda piuttosto la fisionomia dell’americano medio. Anche il ruolo della lingua cinese, che genera singoli prestiti passivi negli ambiti socio-linguistici più rilevanti, ricorda altrettanto da vicino il ruolo dell’inglese globale. La sua Cina ha veramente qualcosa in comune con gli Stati Uniti, oppure lei presagisce un futuro effettivamente dominato dalla Cina?
Io non faccio pronostici che vadano al di là del contesto dei vari romanzi. In Lardo azzurro c’è solo l’influenza di una civiltà, e questo sta, in sostanza, nella realtà dei fatti: in Siberia e sulla costa pacifica della Russia ci sono molti cinesi. Nell’epoca di Putin, sebbene non si voglia pubblicizzare la notizia, si è cominciato a vendergli terreni molto grandi. Prima o poi questo moto epocale dal Sud al Nord sarà inevitabile. Ma io utilizzo il mito della minaccia cinese, con la quale tradizionalmente si spaventano i russi, anche se adesso la propaganda preferisce concentrarsi su un nuovo nemico, la minaccia dell’Occidente. In Lardo azzurro e nella Tormenta incarno il mito di questa enorme massa umana del tutto estranea ai russi e alla nostra cultura, una massa che può travolgerci.
Esiste un Sorokin sceneggiatore, così come un Sorokin drammaturgo e perfino librettista. Va da sé che i suoi dialoghi sono assolutamente vivi e naturali, e opere indefinibili per genere come «La coda» possono essere messe in scena senza il minimo adattamento. Nell’ambito di questa intrinseca scenicità, cosa differenzia la scrittura dei suoi testi per il teatro e per il cinema?
Se nella letteratura ci sei tu, seduto alla scrivania, nel cinema non c’è una persona sola che lavora per se stessa, ma una squadra, che realizza un prodotto rivolto a un grande mercato, e tu sei parte di quella squadra. Bisogna tenerne conto. Io sono una persona duttile, nel senso che amo pormi nuovi obiettivi. Ho già nove sceneggiature alle spalle, ed è qualcosa che rinnova il mio sangue letterario. Mi ci tuffo, e poi torno alla mia scrivania: è molto stimolante.
Qual è il rapporto di Sorokin con l’essenza eterna, immutabile e intraducibile del potere nella società e nella cultura russa?
Il mio atteggiamento nei confronti del potere non è cambiato sin dagli anni settanta e probabilmente non cambierà mai. Per uno scrittore russo questo è un tema sterminato. L’artista e il tiranno. Io ho sempre avvertito il potere come qualcosa di separato, una sorta di macigno, una piramide nera con la quale non si può avere un rapporto di reciprocità. A volte ne sentiamo le irradiazioni, inclementi raggi X, a volte invece si sente odore di caramelle, come quando si diceva che era arrivato il disgelo. Per uno scrittore un potere così è davvero un grande regalo, una circostanza fantastica.