L’altro ieri la zampata sull’Ucraina, con tanti favori a Yanukovich e la garanzia – contropartita non esplicitata ma evidente – sugli interessi russi a Kiev. Ieri l’amnistia nei confronti di almeno ventimila prigionieri, tra cui gli attivisti della Arctic Sunrise, che nelle scorse settimane erano stati rilasciati su cauzione, senza avere il permesso di lasciare il paese. La tentazione è quella di dire che questo uno-due sia una mossa studiata, da parte di Putin. Aggressivo sull’Ucraina, dove ha alzato un muro – temporaneo o definitivo? – nei confronti delle proposte europee di cooperazione rafforzata. Clemente sul caso della Arctic Sunrise, che tanta indignazione aveva suscitato a occidente. Ma probabilmente tra le due faccende non c’è un legame diretto.

La misura dell’amnistia varata ieri, un decreto del Cremlino approvato all’unanimità dalla Duma, la camera bassa del parlamento, era in cantiere da tempo. In occasione del ventesimo anniversario della Costituzione russa (il 12 dicembre), ma anche in vista dei giochi olimpici di Sochi, che si aprono il 7 febbraio, Putin ha voluto compiere un gesto importante, ma solo relativamente: così dicono in molti, segnalando come queste 20mila scarcerazioni siano davvero poco a fronte di una popolazione carceraria pari a quasi 700mila persone. Non solo. È stato fatto notare che il provvedimento, che riguarda solo i reati minori e le condanne inferiori ai 5 anni, accoglie solo una parte delle proposte elaborate in merito dal Consiglio per la società civile e i diritti umani, una struttura federale sotto la presidenza. L’inquilino del Cremlino s’è difeso dalle critiche, dipingendo l’amnistia come una misura che fotografa il senso dell’equità dello Stato russo.

Tra le beneficiarie ci sono anche Nadezhda Tolokonnikova (nella foto Reuters) e Maria Alyokhina, due delle tre Pussy Riot che nel 2012 erano state condannate per hooliganismo dopo la «preghiera punk» inscenata nella cattedrale del Cristo salvatore di Mosca. Alla terza, Yekaterina Samutsevich, era stata sospesa quasi subito la sentenza. Tolokonnikova e Alyokhina, comunque sia, sarebbero state liberate nei prossimi mesi. L’amnistia ha il sapore di una beffa, ha sussurrato qualcuno. Non uscirà dal carcere, invece, Mikhail Khodorkovsy, l’oligarca caduto in disgrazia e condannato nel 2003. Il primo ministro Medvedev era stato chiaro: «la gente non è molto propensa a concedere l’amnistia a chi ha commesso reati finanziari», aveva detto a inizio mese, riferendosi all’ex titolare dell’azienda petrolifera Yukos, oggi non più esistente, che i giudici hanno ritenuto colpevole di frode. Putin l’ha più volte definito «ladro» e di questa storia se ne riparlerà tra qualche mese. In agosto Khodorkovsky finirà di scontare la sua pena, ma già si vocifera di nuove accuse e processi a suo carico. Dell’amnistia non beneficerà neanche Alexei Navalny, l’uomo che, partendo dalle campagne anti-corruzione sul web, è diventato il più accreditato oppositore di Putin. Anche Navalny ha subito un processo, concluso a luglio con la conferma dell’accusa di appropriazione indebita. Una montatura totale, secondo i detrattori di Putin. A ottobre la sentenza è stata sospesa. Ma il recente provvedimento del Cremlino non ne intaccherà il merito.

Storia diversa, quella degli attivisti di Greenpeace, tra cui figura anche l’italiano D’Alessandro. L’amnistia, effettiva nelle prossime ore, chiuderà il procedimento giudiziario attivato nei loro confronti e li farà tornare a casa, a quanto pare a gennaio. Non si chiude però la partita dell’Artico. Lo sfruttamento dei suoi fondali, che Mosca setaccia palmo a palmo con l’obiettivo di rastrellare petrolio e gas, sarà senza dubbio al centro di nuove campagne ecologiste.