Bene, perché i diritti umani sono diventati tema di discussione in parlamento. Male, perché a parte parlare in realtà deputati e senatori in questi primi sei mesi di legislatura hanno fatto ben poco, al punto che temi fondamentali come il sovraffollamento delle carceri, le discriminazioni contro i rom o la trasparenza nelle forze di polizia sono stati velocemente accantonati, mentre gli interessi economici continuano a prevalere sui diritti delle persone. Leggi Libia – con cui il governo delle larghe intese continua ad andare a braccetto nel contrastare gli immigrati -, ma anche Kazakistan con lo scandalosa deportazione della moglie e della figlia di sei anni del dissidente Mukhtar Ablyazov, e Azerbaigian, Paese verso il quale l’Italia sembra essere più attenta alle risorse energetiche che alle ripetute violazioni delle libertà. «Se proprio devo dare un voto a parlamento e governo per quanto hanno fatto per la difesa dei diritti umani direi 5 e mezzo, con la speranza che nei prossimi sei mesi diventi un sei ma sapendo anche che potrebbe diventare un quattro», dice il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi.
Ieri l’associazione ha fatto il punto sul primo semestre della legislatura. Bilancio obbligatorio dopo che 117 parlamentari e tutti i leader dei partiti hanno sottoscritto l’impegno a lavorare su dieci punti individuati da Amnesty come prioritari: numero identificativi per le forze dell’ordine, introduzione del reato di tortura, stop al femminicidio, protezione dei rifugiati, fermare lo sfruttamento dei migranti e bloccare gli accordi con la Libia, assicurare condizioni di vita umane nelle carceri, combattere omofobia e transfobia, fermare la discriminazione e gli sgomberi forzati dei rom, creare un’istituzione per la protezione dei diritti umani, imporre alle multinazionali italiane il rispetto dei diritti umani, lottare contro la pena di morte nel mondo e garantire il controllo sul commercio della armi favorendo l’introduzione di un trattato internazionale. «Sulla maggior parte dei 10 punti della nostra agenda è stato almeno presentato un disegno di legge», prosegue Marchesi. «Il problema è che perdurano antichi vizi, come quelli che da 25 anni ostacolano l’introduzione del reato di tortura, se non addirittura dei veri e propri tabù, come nel caso degli accordi con la Libia di cui continuiamo a chiedere la sospensione e che risultano tanto assenti dal dibattito parlamentare quanto presenti, invece, nell’agenda governativa».
Va detto che anche tra i provvedimenti che Amnesty colloca tra gli impegni realizzati, ci sarebbe qualcosa da dire. Come il ddl sull’omofobia o il decreto legge contro il femminicidio. Sul primo l’associazione sottolinea come positiva l’estensione dell’aggravante prevista dalla legge Mancino anche ai reati contro l’orientamento sessuale, mostrando però maggiore prudenza per quanto riguarda la clausola di salvaguardia relativa alla libertà di espressione. Per quanto riguarda il secondo, la direttrice generale Carlotta Sami ne ha sottolineato invece i limiti: «Chiediamo misure concrete di sostegno alle vittime – ha detto – e azioni di prevenzione efficaci. La repressione è importante, ma da sola non risolverà il problema».
Insomma luci e ombre. E così se sul piano internazionale vanno segnalati come positivi l’impegno per la moratoria sulla pena di morte, la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne e la ratifica del Trattato Onu sul commercio di armi, lo stesso non si può dire per quanto accade a casa nostra. Valga per tutti il ddl che dovrebbe introdurre il reato di tortura. Anziché adeguarsi alla definizione stabilita dell’Onu, per le quali si può intendere come tortura anche un solo atto violento o la singola minaccia, si è preferito optare per una definizione più comoda che prevede «più atti di violenza o di minaccia».