La Marcia del Ritorno lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele ha due volti, quelli delle donne, gli uomini, i giovani e i bambini che danzano, cantano e mangiano insieme e quella del fuoco sparato dai cecchini israeliani. Una strage: dal 30 marzo si contano 52 morti, oltre 7mila feriti: contro un tale sproporzionato uso della forza è intervenuta Amnesty International che ha chiesto l’embargo nella vendita di armi a Israele. Ne abbiamo parlato con Magdalena Mughrabi, vice direttrice di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa.

Non è la prima volta che chiamate all’embargo verso Israele, stavolta a seguito delle uccisioni e i gravi ferimenti a Gaza.
Negli ultimi anni abbiamo fatto diversi appelli di questo tipo per l’utilizzo di lunga durata di forza eccessiva contro palestinesi durante la repressione di manifestazioni e anche durante operazioni militari contro gruppi armati palestinesi, come le ultime tre offensive su Gaza. Stiamo da tempo sollevando il rischio per il trasferimento di armi verso Israele, utilizzate per commettere gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.
Nel rapporto indicate le armi usate da cecchini a Gaza, sia di fabbricazione israeliana che statunitense. Come siete giunti all’identificazione?
La nostra ricerca si basa su interviste condotte con medici di Gaza e su foto dei feriti che siamo riusciti a ottenere tramite i nostri referenti in loco: abbiamo identificato due tipi di armi usate della forze di Tel Aviv in risposta alle proteste, una è israeliana e l’altra è statunitense. Quest’ultima è un fucile utilizzato nella caccia. Entrambe causano ferite molto gravi. Il numero di feriti da proiettili è molto alto e questo, insieme al bilancio di morti, suggerisce che le forze israeliane feriscono i manifestanti deliberatamente.

Si tratta di proiettili vietati dal diritto internazionale?
Non sono armi proibite, ma generalmente sono usate in situazioni di combattimento o di guerra. Qui non ci troviamo di fronte a una situazione di combattimento, ma di fronte a manifestanti che non rappresentano una minaccia.

La questione sta nell’utilizzo di forza letale, al di là del tipo di arma usata.
Assolutamente. Qui il problema è l’uso di proiettili che non dovrebbero essere usati affatto: secondo il diritto internazionale si è autorizzati a usare forza quando c’è un’imminente minaccia alla vita. La situazione è diversa: le autorità israeliane dicono di usare forza letale contro istigatori alla violenza, accusando Hamas, o quando i manifestanti tentano di infiltrarsi in Israele, ma la nostra ricerca dimostra che vengono colpiti manifestanti che non rappresentano una minaccia o che si trovano ad almeno 400 metri dalla barriera. In alcuni casi è vero che i palestinesi hanno lanciato pietre, ma è difficile pensare che una pietra rappresenti una minaccia diretta alla vita di cecchini e soldati protetti da una barriera, montagne di sabbia e veicoli militari. Altri casi da noi analizzati sono quelli di persone, molte, colpite alla schiena o alle gambe mentre correvano via dalla barriera. Questo uso della forza è illegale, l’ordine dato ai soldati e ai cecchini di aprire il fuoco a manifestanti è illegale. È l’uso della forza a essere illegittimo. Se poi ci si trova di fronte ad armi da caccia o da combattimento che provocano danni gravissimi e ferite che cambiano la vita della persona colpita, l’unica conclusione che ne deriva è che sia una politica deliberata per infliggere danni permanenti.

In un contesto di crisi umanitaria strutturale e di un elevato tasso di disoccupazione, quanto una simile politica va a colpire l’intera società gazawi?
Questa situazione si aggiunge a un blocco di oltre 10 anni su Gaza. I medici ci dicono che la situazione negli ospedali è orribile, le infrastrutture sono indebolite, i materiali per la ricostruzione non entrano e la Striscia manca ancora di case e strutture. C’è una cronica crisi di elettricità e di carburante, come effetto del blocco israeliano e della divisione interna palestinese. I medici stanno lavorando in una situazione disperata, combattono per affrontare l’alto numero di feriti che richiedono operazioni complicate a causa del tipo di armi usate. Sono due i tipi di ferite: la distruzione di tessuti e ossa e la frammentazione interna. Gli ospedali a Gaza non hanno il necessario equipaggiamento, lavorano in stato di emergenza. Anche un ospedale europeo avrebbe problemi seri ad affrontare un tale numero di feriti e di questa gravità. Molte di queste persone vivranno per mesi e anni in riabilitazione, ma tante altre hanno come sola prospettiva una vita di disabilità. E si tratta per lo più di adolescenti e giovani che vedono cambiare del tutto la propria vita a causa dell’uso di una forza letale illegale e senza ragione. Non c’è assolutamente nessun motivo per sparare. Tale situazione si inserisce in un contesto di conflitto prolungato: da anni bambini e ragazzi seguono terapie psicologiche per riprendersi dai continui conflitti e dal blocco. E se un giovane diviene disabile e incapace a sostenere la famiglia, ha un impatto sull’intera società.

Avete ricevuto riscontri al vostro appello?
Non ci sono state reazioni da parte degli Stati. Stiamo lanciando una campagna per prendere di mira specifici governi che vendono armi e munizioni allo Stato di Israele, soprattutto Stati uniti, governi europei e Corea del Sud.