Si sono chiuse ieri sera alle 22, ora locale, le elezioni amministrative in Israele, a Gerusalemme e nel Golan. L’orario non ci ha permesso di riportare l’esito delle consultazioni. Non si attendevano però grandi sorprese dall’elezione di sindaci e consigli comunali e regionali che ha portato alle urne circa 6 milioni di israeliani, pur essendo un test per le elezioni politiche che si terranno nel 2019. Diversi candidati a sindaco ieri non sembravano in grado di vincere al primo turno (con almeno il 40% dei voti) e dovranno affrontare il ballottaggio che si terrà il 13 novembre. L’interesse principale è ruotato intorno a Gerusalemme. La città, un feudo della destra israeliana e dei religiosi ortodossi, è al centro dell’attenzione dopo il suo riconoscimento come capitale di Israele fatto circa un anno fa da Donald Trump. Il Likud del premier Netanyahu perciò ha schierato un pezzo da novanta, il ministro per Gerusalemme, Zeev Elkin, un ultranazionalista religioso, per sostituire il sindaco uscente Nir Barkat. Nel difficile tentativo di sbarrargli il passo si sono impegnati Ofer Berkovitch, punto di riferimento di una parte degli elettori laici, e Moshe Lion, sostenuto dai partiti religiosi.

Spinto da sondaggi favorevoli, Elkin ha proclamato durante la campagna elettorale di voler rendere Gerusalemme ancora più la capitale di Israele e di voler condurre una campagna contro le costruzioni “illegali”. In sostanza vuole demolire le case che i palestinesi costruiscono senza i permessi edilizi concessi con il contagocce autorità comunali ai cittadini arabi. L’hanno fatto tutti i suoi predecessori. Elkin però sostiene di volerlo fare in modo rapido e massiccio. E così ha fornito ai palestinesi (oltre il 30% della popolazione secondo le statistiche ufficiali, il 40% nella realtà) nella zona araba (Est), occupata nel 1967, di Gerusalemme un motivo in più per boicottare ieri le urne, come hanno fatto negli ultimi 51 anni. Solo una frazione di abitanti di Gerusalemme Est ha partecipato al voto che pure vedeva tra i candidati Ramadan Dabash, un palestinese nel sobborgo di Sur Baher che si proclama “sostenitore” del Likud di Netanyahu. Quest’anno tra i palestinesi si è discusso della possibilità di partecipare al voto, affermando comunque il rifiuto della sovranità di Israele su tutta la città, in modo da portare in consiglio comunale un’opposizione forte alle politiche dell’amministrazione israeliana. Alla fine è però prevalsa la continuità del boicottaggio. «La partecipazione al voto per molti non avrebbe avuto alcun senso» ci ha spiegato l’analista di Gerusalemme Mahdi Abdel Hadi, direttore del centro studi Passia, «a maggior ragione ora che la Knesset (il parlamento israeliano,ndr) ha approvato la legge che definisce tutto il territorio controllato da Israele appartenente al popolo ebraico. Anche chi si proclama simpatizzante del Likud (Dabash, ndr) sa bene che non avrà alcun potere entrando nel consiglio comunale». Senza democrazia e uguaglianza tra israeliani e palestinesi, ha aggiunto Abdel Hadi, «l’unica strada è il boicottaggio dell’occupazione. La legalità internazionale che era e resta il punto di riferimento dei palestinesi di Gerusalemme».

Israele “Stato della nazione ebraica” invece non ha spinto i palestinesi cittadini di Israele (gli arabo israeliani) a boicottare le urne o ad attuare altre forme di protesta. L’affluenza alle urne nei centri abitati arabi in Galilea è stata sostenuta. «Il voto amministrativo è importante per i palestinesi in Israele, soprattutto quelli dei villaggi e centri rurali» ci ha detto la giornalista di Haifa, Nahed Dirbas «perché possono votare per candidati che sono parte della loro comunità, per sindaci che sono palestinesi, cosa che non accade quando si vota per la Knesset». Sulle alture del Golan – occupate nella guerra del 1967 con la Siria e unilateralmente annesse ad Israele nel 1981 – invece è scoppiata la protesta dei 22mila abitanti drusi. Per la prima volta sono state organizzate elezioni in quattro consigli regionali drusi e la leadership politica e religiosa locale ha minacciato un «boicottaggio sociale» nei confronti sia dei candidati sia dei votanti. In due villaggi, Masada e Bukata, tutti i candidati ieri hanno dato forfait. A Majdel Shams le urne sono rimaste vuote e migliaia di drusi hanno inscenato proteste sventolando la bandiera siriana. Decine di loro sono stati feriti dalle cariche della polizia israeliana che ha cercato di aprire un varco per i pochissimi elettori decisi ad entrare nei seggi.