Uno scheletro bianco pieno di cadaveri. Eccola la barca, adagiata sul fondale. Non è rovesciata, è solo inclinata sul fianco sinistro a 47 metri sotto un mare di morte. Nessun segno di incendio, solo coperte imbevute di cherosene. Si dev’essere piegata su un lato sotto la spinta dei migranti terrorizzati. E’ così che ha imbarcato acqua ed è affondata nel giro di pochi minuti. Là dentro ci sono ancora almeno un centinaio di morti senza nome, quasi tutti giovani, molte donne, alcuni bambini. I racconti dei primi subacquei sono impressionanti. «Ci sono decine di corpi. Stanno uno sull’altro, ammassati e incastrati. Quando hanno capito che stavano morendo hanno tentato di fuggire e si sono schiacciati uno con l’altro, rimanendo bloccati nella stiva». Proprio là erano stipati i più poveri tra i poveri, morti come topi in gabbia.
Ieri a Lampedusa il mare era brutto, i soccorsi hanno dovuto fermarsi in attesa di riprendere le ricerche. Fino a ieri mattina erano stati recuperati 111 cadaveri, tra cui 49 donne e 4 bambini. I sopravvissuti sono 155, comprese 3 donne e 40 minorenni. Una di queste donne ha avuto un aborto spontaneo durante il viaggio nel deserto a causa delle violenze subite. Tutti gli altri, sicuramente più di un centinaio, sono ancora sotto quel barcone. I morti ripescati dal mare sono stipati dentro i sacchi di plastica nell’hangar dell’aeroporto. Sono identificati con un numero. I loro volti esanimi sono stati fotografati e gli sono state prese le impronte digitali nel tentativo di cercare di risalire alla loro identità. I vivi invece sono costretti a sopravvivere alla meno peggio nel centro di prima accoglienza dell’isola che ospita in condizioni pessime quasi mille persone a fronte di una capienza prevista di 300 posti. Al mattino il traghetto proveniente da Porto Empedocle ha trasferito dall’isola un centinaio di migranti fra cui i siriani scampati alla tragedia che poi verranno caricati su degli autobus alla volta di Pozzallo (Rg). La stessa nave ha trasportato nell’isola due camion pieni di 120 bare e quattro carri funebri. Ma manca ancora un piano preciso per decidere come e quando seppellire tutti questi cadaveri.
Ieri a Lampedusa era tutto chiuso. Bar, negozi, caffè. Si chiama lutto, ma loro lo chiamano sciopero. Per le strade i lampedusani attoniti e arrabbiati, i turisti e frotte di giornalisti. Angelino Alfano era appena ripartito, ma qui nessuno riesce più a sopportare le passerelle dei politici e le belle parole. «Che ce ne facciamo del nobel per la pace, vogliamo che i nostri pescatori peschino pesci non cadaveri». Il governatore siciliano Rosario Crocetta ha visitato l’hangar dell’aeroporto accompagnato dal sindaco Giusi Nicolini che anche ieri ha ribadito: «Sono queste leggi e queste politiche che consentono queste tragedie».
Tutta Lampedusa verso le 18 si è raccolta nella chiesa di San Gerlando dove si è celebrata la messa per le vittime. Poi è partita una fiaccolata di un migliaio di persone. Il parroco don Stefano Nastasi, lo stesso che un mese fa ha accolto papa Francesco, ha avuto parole dure: «Mentre si discute qui si muore. Tutto sa di ipocrisia. Ho assistito a una scena che non avrei mai voluto vedere. Sembrava il risultato di una guerra o di un terremoto».
I lampedusani sono quelli che più di tutti si danno da fare da anni per soccorre, accogliere e supplire alle carenze di uno stato che li ascolta solo quando non può farne a meno. Sono quelli che portano sulle spalle più di ogni altro la consapevolezza che tutti questi morti pesano sulla coscienza di tutti. Da soli sentono forte la responsabilità e l’impotenza per non aver potuto fare di più. Ma questa volta non riescono ad accettare che con la fine della stagione estiva gli sbarchi continueranno, porteranno altri disperati e altri cadaveri sulla loro isola, ma il mondo tornerà a dimenticarsi di loro e a fare finta di niente.