Qualche tempo fa, lavorando sul resoconto tecnico di alcuni lavori pubblici, mi sono imbattuto in un termine che mi ha affascinato e come ipnotizzato per qualche istante: ammalorata.
Ammalorata era una strada, il cui asfalto risultava sconnesso, pieno di buche ecc. per cui era stato previsto un intervento per «rimettere in sicurezza» la viabilità in quel tratto. Lì per lì pensai a una qualche propensione letteraria dell’ignoto estensore, immaginato come un Bartleby con mezze maniche scure, in un angolo dell’assessorato alle strade, chino sul foglio protocollo con in mano una vecchia stilografica.

Ho poi verificato che si tratta di un termine tecnico normalmente utilizzato, così definito dal dizionario Treccani: ammalorato significa guasto, deteriorato, ridotto in cattive condizioni, con riferimento particolare a opere murarie e pavimentazioni stradali.

Eppure ho continuato a avvertire in quella parola qualcosa di più di una semplice funzione identificativa di un danno materiale. L’idea che un malanno o un malore si è abbattuto su di noi per una fatalità avversa, ma forse anche per l’incapacità di reagire a questo pericolo con la necessaria forza d’animo e, per così dire, con prontezza e capacità operativa.

In quell’ammalorarsi c’è anche qualcosa di malinconico. Il rimpianto per una sconfitta alla quale non si sa reagire. Il rischio di un definitivo, e forse rassegnato, andare in malora. La consapevolezza di vivere una mala ora, un tempo che non ci dà scampo.

Confesso che nella mia testa è scattato un altro collegamento: quella strada ammalorata mi ha fatto pensare alla situazione della sinistra, della sinistra di cui molto si discute sulle pagine di questo giornale. Un percorso pieno di danni, di buche, ma abbastanza povero di rimedi, di opere capaci di «rimettere in sicurezza» il cammino, oppure della capacità di scoprire percorsi alternativi ( in grado però di condurci effettivamente alle mete che i nostri desideri politici ci fanno vagheggiare).

Un sentimento che si rinnova quando leggo le molte analisi in cui campeggia quasi esclusivamente il negativo. Cito persone che conosco e che stimo, come Fausto Bertinotti, che pronuncia un giudizio nettissimo su Renzi definito «neoautoritario» in un contesto in cui la sinistra proprio non esiste più, è scomparsa senza appello. Oppure un articolo di qualche giorno fa, firmato da Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, nel quale mi è sembrato che quasi si scommettesse sui prossimi fallimenti del governo. Come a dire: state tranquilli, ora Renzi sembra vincente, prende voti e attrae consensi, ma in autunno quando i veri nodi economici verranno al pettine e tutto andrà in malora, allora sì che si vedrà la funzione di una vera sinistra!

Non escludo che queste analisi siano fondate, è anche giusto non rimuovere mai, ma analizzare e elaborare il negativo che è intorno a noi. Ma quando emerge così prepotentemente la descrizione del negativo che esprimono gli altri, o del male che ci capiterà e che potrà, principalmente e specialmente lui, essere la leva principale di un ipotetico mutamento positivo, mi viene da pensare che ci sia troppo scarsa considerazione, invece, del negativo che è in noi. La nostra incapacità di riconoscere sentimenti e desideri costruttivi in forza dei quali saper vedere le leve positive del cambiamento. Così, in realtà, sono nate le rivoluzioni più grandi e radicali.

Altrimenti rassegniamoci all’unica direzione di marcia che ci indica Bertinotti, andiamo in analisi per fare seriamente autocoscienza. Sono d’accordo – questo sì – sulla scelta di analisti lacaniani.