Nessuna capitolazione, ma neppure mosse avventate; «fermezza», ma «senza alzare la voce». L’obiettivo di Andrés Manuel López Obrador, detto popolarmente Amlo, è fare il possibile, nel rispetto della dignità nazionale, per scongiurare l’entrata in vigore già lunedì prossimo dei dazi Usa sulle importazioni messicane – partendo dal 5%, ma con aumenti progressivi fino al 25% – annunciati da Donald Trump nel caso in cui il Messico non accetti di fare il lavoro sporco per conto degli Usa, impedendo l’arrivo dei migranti centroamericani.

La cautela di Amlo è più che comprensibile: l’economia messicana, dipendente per più dell’80% da quella Usa in settori vitali come alimentazione ed energia, entrerebbe in recessione già a partire da luglio, quando le tariffe sulle merci messicane importate salirebbero al 10%. Non sorprende che il presidente abbia evidenziato come le profonde relazioni economiche, commerciali e culturali tra i due paesi, la condivisione di più di 3mila km di frontiera e la presenza di 24 milioni di messicani negli Stati uniti impongano al Messico di agire «con prudenza e responsabilità», cercando di evitare la rottura con l’amministrazione Trump.

Con un avvertimento: «Senza gli importanti sforzi messicani in materia migratoria, gli Stati uniti riceverebbero 250mila migranti in più solo nel 2019». E con una conciliante ammissione, espressa dal ministro degli esteri Marcelo Ebrard, capo della delegazione di alto livello incaricata di negoziare con gli Usa, sull’insostenibilità dell’attuale situazione a causa dell’eccessiva crescita dei flussi migratori. In ogni caso se per il vicepresidente Usa Mike Pence «il Messico deve fare di più», l’impegno profuso dal governo di Amlo per frenare i flussi migratori verso il nord non è di poco conto.

Nei primi cinque mesi del mandato presidenziale di Amlo, le espulsioni di migranti centroamericani sono quasi triplicate, passando – dati dell’Istituto nazionale di migrazione – da 5.717 a dicembre 2018 a 14.970 ad aprile (la cifra mensile più alta degli ultimi 3 anni), per un totale di 45.370 persone espulse, in maggioranza centroamericane.

L’ultima operazione è stata condotta dalle autorità messicane proprio nel primo giorno dei colloqui tra le delegazioni dei due paesi, quando una carovana di mille migranti provenienti dal Guatemala e diretti verso la frontiera degli Stati uniti è stata bloccata da agenti migratori e da elementi dell’esercito e della polizia federale.

«Il nuovo governo era voluto partire da un approccio umanitario, da una politica più aperta rispetto a quella della precedente amministrazione, ma a quanto pare ha fatto marcia indietro – ha denunciato Jorge Andrade, ricercatore dell’Istituto per la sicurezza e la democrazia – Il governo ha aperto le porte, ma aveva dimenticato di avere gli Stati uniti come vicini».

Non a caso, rispetto all’inizio dell’anno, il numero dei cosiddetti “visti umanitari” concessi ai migranti per consentire loro di vivere e lavorare legalmente in Messico si è ridotto drasticamente, passando dagli 11mila di gennaio ai 1.500 di marzo. Mentre è aumentata la concessione della Tarjeta de Visitante Regional, che consente entrate e uscite multiple negli Stati del sud (Campeche, Chiapas, Tabasco e Quintana Roo), con il doppio obiettivo di alleggerire la congestionata frontiera con gli Stati uniti e reperire manodopera per le controverse grandi opere previste nella regione.

A cominciare, è chiaro, dal contestatissimo Tren Maya, un progetto di linea ferroviaria chiamato a collegare le principali aree turistiche del sudest messicano, in perfetta continuità con la strategia neoliberista di controllo territoriale seguita dai governi precedenti, a base di deforestazione, monocolture, progetti minerari, zone economiche speciali.