Se esiste una cifra distintiva della scrittura di Amitav Ghosh, essa risiede in un equilibrio tra invenzione narrativa e passione scientifica che è prossimo alla perfezione. Dalla complessità stilistica delle prime opere alla prosa più classica e fluviale della trilogia sulla guerra dell’oppio, Ghosh ha fatto del romanzo un laboratorio di indagini conoscitive in ambito storico, etnografico, antropologico e linguistico, la cui profondità è sempre risultata direttamente proporzionale alla quota di azione e umanità immessa nei suoi intrecci e nei suoi personaggi. Inaspettatamente e non senza suscitare un certo sgomento, L’isola dei fucili – il suo decimo romanzo appena uscito da Neri Pozza (traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti, pp. 345, € 18,00) – cambia le regole del gioco e mette in scena un’avventura dell’Antropocene che abbraccia secoli di storia e si disloca su quattro continenti, apparentemente sacrificando la sapiente alchimia tra la trattazione argomentativa e il feuilleton alla quale Ghosh ha abituato i suoi lettori.

Che lo si legga come romanzo autonomo, oppure come il sequel del Paese delle maree (2005), L’isola dei fucili scardina tutte le aspettative generate dal metodo compositivo sinora adottato, giacché sembra essere stato concepito esclusivamente come esperimento finalizzato a dare sostanza letteraria alle inderogabili questioni socio-ambientali che minacciano la vita del pianeta: i cambiamenti climatici e i flussi migratori.

Un mondo nuovo
«Lo sentirai ripetere spesso da queste parti. Siamo in un mondo nuovo. Nessuno sa più a quale luogo appartiene, né gli esseri umani né gli animali»: così la protagonista a proposito delle masse di gente in fuga dall’arcipelago bengalese delle Sundarban, devastato dai cicloni e dalle morie dei pesci. Dallo sconquasso delle percezioni generato da questo «mondo nuovo» Ghosh estrae la propria materia narrativa e la organizza in un racconto picaresco nel quale l’incertezza esistenziale del soggetto nomade, già caratteristica ricorrente nei suoi personaggi, diventa instabilità di tutte le specie viventi, e il lungo respiro dei tradizionali intrecci multipli, fortemente rievocativo dei romanzi ottocenteschi, muta nell’accelerazione di una trama lineare, ridotta a pochi elementi: un libraio antiquario, sentimentalmente frustrato, che vive tra New York e Calcutta ed è a caccia di nuovi stimoli; una scienziata che studia i delfini gangetici e presiede una fondazione benefica (già protagonista di The Hungry Tide); un’oscura leggenda indù su una dea incantatrice di serpenti; un pellegrinaggio rocambolesco attraverso l’America, l’India e l’Italia, alla ricerca di vecchie e nuove connessioni umane e naturali.

A sorprendere chi è abituato ai tempi lunghi e agli scioglimenti accuratamente orchestrati dei romanzi precedenti non è tanto la trama lineare, avvincente come sempre, quanto piuttosto la velocità supersonica del racconto, che accumula fatti, informazioni e conoscenze in modo quasi catalogico, nell’intento di trasmettere un senso di urgenza assoluta. Ogni singolo segmento narrativo sembra mosso da questa impellenza, in nome della quale Ghosh non si fa scrupolo di disattendere smaccatamente il mandato a «mostrare» anziché a «dire» che, già a fine Ottocento, Conrad rivolgeva al romanziere moderno.

Brani saggistici, dialoghi simili a didascalie e, per contro, bizzarre coincidenze, lontananze fisiche superate con la sola forza del pensiero, precognizioni che si avverano, sequenze di disastri evocate senza soluzione di continuità: a dispetto della linearità dell’intreccio, L’isola dei fucili è indubbiamente il romanzo più disomogeneo e frettoloso che Ghosh abbia scritto fino a questo momento. Persino la scelta inedita della narrazione in prima persona è funzionale a questa poetica dell’urgenza, giacché restringe il campo percettivo a un unico, parziale focalizzatore. Il suo nome è Dino (così soprannominato da un’amica veneziana), lo schivo commerciante di libri antichi che, sulle tracce del mercante di fucili perseguitato dalla dea crudele, in un batter d’ali si trova suo malgrado invischiato in tutti i mali del pianeta: tifoni, foreste in fiamme, mostri marini, rivoltanti teredini che «si stanno mangiando le fondamenta di Venezia», migranti sopravvissuti alle violenze dei trafficanti di esseri umani che parlano un curioso «bangla globale», e persino una battaglia navale tra sovranisti italiani e attivisti delle organizzazioni umanitarie, combattuta a suon di slogan in mezzo al Mare Adriatico.

Nel più esaustivo studio italiano sulla narrativa di Ghosh, Alessandro Vescovi nota che «già in The Shadow Lines l’autore ci mette in guardia contro una distinzione netta tra diversi territori: non c’è soluzione di continuità tra Bengala occidentale e Bangladesh e questo vale metaforicamente anche per le province della scrittura: saggistica, argomentativa e narrativa» (Amitav Ghosh, 2011).

Giustissimo. Senonché, con L’isola dei fucili Ghosh va ben oltre lo sconfinamento tra i generi del discorso, per mettere ostentatamente a nudo i procedimenti di un’immaginazione scombussolata ed entropica. Un’immaginazione che non soltanto appare inadeguata a elaborare la fusione armonica tra scienza e arte, tra informazione ed empatia, ma che di tale inadeguatezza sembra quasi compiacersi.

Per comprendere le implicazioni di questa metamorfosi è utile tornare al saggio La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, pubblicato nel 2016. In quella sede Ghosh rifletteva sul ruolo che la letteratura può svolgere nel presente e nel futuro di una umanità «post-naturale» e nel conseguimento di una maggiore giustizia climatica, e lamentava la scarsa presenza dei temi ambientali nel romanzo contemporaneo, ascrivendone la causa alla differenza radicale tra i fondamenti culturali del romanzo occidentale e quelli dell’ecologia.
L’Antropocene ha vanificato la convinzione che la libertà e la storia dipendano dalla capacità umana di trascendere la natura; di conseguenza, «il riconoscimento che non siamo stati mai indipendenti da vincoli non-umani» si abbatte sugli scrittori con una violenza epistemica che rischia di desertificarne l’immaginazione. Se in passato il romanzo ha celebrato l’«avventura morale» di individui autonomi e smaterializzati, facendone coincidere la libertà con una profonda dissociazione tra il corpo e la mente, tra il singolo e la collettività, oggi questo progetto appare non solo impraticabile ma obsoleto.

Piacere di una sfida
Il cambiamento climatico sta modificando la struttura della terra e cancellando tutti i confini tracciati dall’imperialismo – «il più grandioso e crudele esperimento di rimodellamento planetario che la storia avesse mai conosciuto» – facendo emergere «impensabili» connessioni e interdipendenze tra tutte le specie viventi. Tutto ciò esige urgentemente nuovi strumenti espressivi e più audaci aperture immaginative.

Con L’isola dei fucili Ghosh raccoglie così la propria stessa sfida e prova a raccontare questo mondo nuovo: abbracciando frontalmente le sue innumerevoli urgenze, e restituendo l’universo del romanzo all’imponderabile e al perturbante, in una chiave squisitamente laica, solidale e contingente. A prescindere dagli esiti, che possono essere controversi, il piacere del testo sta tutto nel valore di questa sfida.