«Sì. È questa è la mia vita. Sono cresciuto in strada. Non ho mai conosciuto mio padre e ho perso la mamma quando avevo cinque anni. Ho iniziato ad andare al cinema a sei, sette anni. È stata la cosa che mi ha insegnato di più. Non sapevo nemmeno che esistesse la scuola fino a che, un giorno, un mio amico non è venuto a giocare. ’Ma dov’è?’, ho chiesto. ’A scuola’ mi hanno risposto. Allora sono andato a vedere di cosa si trattava. Ho iniziato a frequentare le lezioni in ritardo, quando ero più vecchio degli altri bambini. Ma dopo pochi anni li ho salutati: ’Arrivederci! Vado a fare dei film’».

Chi conosce il lavoro di Amir Naderi sa che il cinema è non solo la scuola, ma anche la religione, l’ispirazione, il grande amore, la materia prima e l’obbiettivo ultimo della sua vita – una magnifica ossessione vissuta con rigore filosofico, poetico e fisico grandissimi e che lo ha portato, dall’Iran, a lavorare anche in America, Giappone e Italia con la naturalezza di chi crede che, per l’arte, le frontiere non esistono. «Tutti i miei film hanno lo stesso soggetto – un personaggio che sta cercando di fare l’impossibile. Ma non ho mai guardato queste storie, o alla mia biografia, con autocommiserazione», ha detto ancora Naderi al pubblico del Museum of Modern Art di New York.

L’occasione, venerdì scorso, era la proiezione di Davandeh (Il corridore). Naderi ha scelto il suo capolavoro autobiografico, realizzato nel 1985 con bambini di strada, nel quartiere portuale di una città sul golfo persico (è nato nel 1945 ad Abadan), mentre in Iran infuriava la guerra, per aprire la retrospettiva che il MoMA gli sta dedicando e che è curata da Dave Kehr. Un omaggio, quello della sua città adottiva (da quando ha lasciato Tehran, alla fine degli anni ottanta), da festeggiare e dovuto da tempo: l’ultimo tentativo di organizzargli un tributo risale infatti al 2001, ed era stato (indirettamente) sabotato dall’attentato dell’11 settembre.

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In occasione della retro, il MoMA presenterà anche l’ultimo lavoro del regista, Monte, il film italiano che in USA non è stato mai distribuito e rispetto a cui Il corridore si pone in straordinaria, limpidissima, simmetricità. Un bambino «stracciato», dal sorriso indimenticabile, innamorato di navi e aeroplani, perennemente in corsa tra decrepiti mercantili arrugginiti e sui sassi di rotaie dirette chissà dove, che urla al vento, all’acqua e alle fiamme stringendo al petto -come un tesoro – un blocco di ghiaccio che si scioglie a velocità vertiginosa: in quelle immagini, restituite alla loro bellezza originale grazie a un transfer digitale arrivato dalla Francia, sta già tutta la grandezza del cinema di Naderi.

Il suo rapporto fortissimo con gli elementi, la sua frontalità, la qualità ossessiva e eccentrica, la fede nel «gesto libero», la capacità di inserire il pensiero astratto nella linearità di una storia, il gusto per il montaggio secco, l’uso sofisticatissimo del suono e la modernità che lo distinguono, fin dall’inizio, da altri grandi del cinema iraniano, come Kiarostami, che Amir definisce da sempre un suo maestro, e un amico. Difficili, quando non addirittura impossibili, da vedere i film iraniani di Naderi costituiscono un tassello importantissimo della sua opera, al fianco della trilogia newyorkese (Manhattan by Numbers, ABC Manhattan e MarathonEnigma a Manhattan), degli altri film americani, Sound Barrier e Vegas e dei recenti Cut e Monte – titoli che sono entrati nella filigrana dei festival internazionali, anche se in modo idiosincratico, mai istituzionalizzato.

Forse perché l’irrequietezza, la curiosità, l’indocile frenesia che sono parte dell’opera di Amir, come del suo Dna, fanno sì che ogni film sia come ripartire da zero -una battaglia contro «la» montagna. Questa inassimilabilità – alla produzione industriale come ai circuiti dell’arthouse – ha reso più difficile il riconoscimento internazionale del suo cinema. Con una decina di film – tra cui, oltre al Corridore, Aab, Baad, Khaak – (Water, Wind, Dust) e il mediometraggio (autobiografico anche questo) del 1974 Entezar (Waiting) – l’omaggio del MoMA è un passo importante per correggere il tiro e un ottimo preludio all’ancor più imperdibile retrospettiva completa che gli dedicherà, a partire dal 5 aprile il Centre Pompidou di Parigi fino a metà giugno.

In Francia, negli anni, il lavoro di Naderi ha circolato più liberamente che in Usa, grazie a festival come quelli di Nantes e del Cinéma du Réel. Anche in quel contesto, però, lo sforzo del Pompidou è enorme, fatto com’è di titoli raramente usciti dall’Iran e che lo stesso Naderi non vede da decenni. Spesso in presenza del regista, la serie prevede infatti tutti i film di Naderi, a partire da Khodahfez Rafigh (1971), un quasi-noir ispirato a Dassin e John Huston, Tangna (1973) e Saz-Dahani (1973), il primo dei suoi tre film sull’infanzia.

Include il materiale ritrovato (19 minuti, senza sonoro) di un film che non è mai riuscito a portare a termine, Barandeh (The Winner), e due film girati sullo sfondo della Rivoluzione, proibiti e invisibili da trentacinque anni, Josto Ju (1980) e Josto Ju-Je Dovvom (1981), il primo un documentario sulla ricerca degli scomparsi dopo la violenta carica della polizia a una manifestazione, l’8 settembre 1978, e l’altro un film di fiction sullo sfondo dei luoghi del combattimento, in una città distrutta dalla guerra.

La retrospettiva parigina include anche un corto di dieci minuti realizzato da Naderi appositamente per l’occasione, Ou En Etes-Vous Amir Naderi?. Ma non il lavoro che ha finito da poco di girare a Los Angeles, con Jacqueline Bissett. «Certo che sto ancora correndo», ha detto Naderi al MoMA, prima di mandare tutti a cena: «Il mio nuovo film è quasi finito. Aspetto già il prossimo».