«Il Libano è un Paese piccolo e una tragedia di queste proporzioni si può dire che tocchi tutti i suoi abitanti. Nessuno escluso». Amin Maalouf risponde con calma al telefono dalla sua casa parigina e, malgrado non viva a Beirut da più di quarant’anni, dalle sue parole si comprende come non abbia mai lasciato davvero quei luoghi. Tra gli intellettuali più noti e prestigiosi del Mediterraneo, romanziere e storico, membro dell’Académie française ha pubblicato lo scorso anno Il naufragio delle civiltà (La nave di Teseo) con cui conclude la sua riflessione sulla crisi, anche culturale, del Medioriente evocando il mondo perduto del Levante.

Quale è stata la sua prima reazione a questa tragedia?
Purtroppo, la consapevolezza che non si è trattato di un disastro naturale, ma del drammatico risultato dell’incompetenza con la quale viene gestita ogni cosa nel Paese. Si sa ancora poco su come siano andate effettivamente le cose, ma già quel che sappiamo la dice lunga sulle responsabilità. Il Libano ha grandi potenzialità ma è da sempre mal governato.

Lei ha studiato nel centro di Beirut, i luoghi dell’esplosione le sono familiari?
Parliamo di un Paese molto piccolo: dal villaggio di montagna a 1200 metri di altitudine dove sono cresciuto al centro di Beirut non si impiegano più di 40 minuti. È una realtà dove non dico ci si conosca tutti, ma dove i legami sono vasti e estesi. In questo momento sto pensando alle tante persone che conosco che sono rimaste ferite, alle case di amici e parenti distrutte o danneggiate gravemente. A strade e piazze che ho percorso di cui non restano che macerie.

Una delle più famose canzoni del Medioriente, «Li Beirut» (Per Beirut) resa celebre da Fairuz, racconta la biografia tragica della città, ferita a morte, all’epoca, dalla guerra civile. È questo il destino di Beirut?
I miei ricordi, fin da bambino, parlano di una realtà turbolenta, di un luogo dove divampavano feroci conflitti e che faceva da cassa di risonanza per quelli dell’intera regione. Anche perché Beirut è sempre stata una sorta di «capitale culturale» del Medioriente. Un luogo particolarmente animato e attraversato da mille attività, dove si stampavano molti giornali, sorgevano grandi case editrici e si sviluppava l’industria dell’intrattenimento, con spettacoli, film, canzoni. Qualcosa che ha portato con sé un legame speciale che chi ha vissuto lì anche per un breve periodo continua a conservare con Beirut.

Ha lasciato la città da tempo, ma nelle sue opere tornano spesso le vicende libanesi. Quale è il ricordo più forte di Beirut?
I miei ricordi più intensi sono quelli del periodo in cui vivevo nel quartiere di Ras Beirut, una delle zone più cosmopolite e internazionali, una parte del centro cittadino protesa verso il mare aperto. È lì che sorgeva l’Università americana e l’intero quartiere era in qualche modo cresciuto intorno a quel luogo simbolo del carattere intellettuale della città, un po’ come è avvenuto per tante metropoli europee. Vivere in quel quartiere significava respirare, già alla fine degli anni Sessanta, un clima particolare: c’erano molti studenti provenienti dal mondo arabo e molti docenti europei e libanesi. Tra i propri amici ci poteva essere un palestinese o un olandese ed era assolutamente normale che fosse così. Dopo la fine del colonialismo europeo, il Libano è stato per un certo periodo un esempio di tolleranza e convivenza pacifica tra diversi. E Beirut era il simbolo di tutto ciò.

Prima di questo ennesima tragedia, il Libano appariva di nuovo pericolosamente diviso, crede che paradossalmente di fronte a questo dramma possa riuscire a riunirsi?
In questo momento i libanesi sono tutti minacciati allo stesso modo, il Paese è sul punto di andare letteralmente in frantumi: uno scenario di fronte al quale nessuno può sentirsi escluso. Spero che questo porti a un soprassalto politico unitario che conduca a superare le divisioni. Questo è quanto chiedono un gran numero di libanesi, anche se non sono sicuro che ci sarà la forza e la determinazione per arrivare a questo risultato.

Lei appartiene a quella folta comunità della diaspora libanese – quasi un «Libano fuori dal Libano» – formata da intellettuali e uomini di cultura, quale pensa potrà essere ora il vostro contributo a sostegno del Paese?
Ho lasciato Beirut 44 anni fa ma non posso dire che il mio rapporto con il Paese si sia mai davvero interrotto. E credo di poter dire lo stesso dei molti che come me se ne sono andati dal Libano allo scoppio della guerra civile a metà degli anni Settanta. Credo che anche loro si stiano domandando, proprio come sto facendo io, in che modo possono contribuire a sostenere il Libano di fronte a questa tragedia. Per questo penso ci sia bisogno di una vasto «progetto nazionale» che consenta di canalizzare tutte queste energie, dei libanesi «di dentro» come di quelli «di fuori», per il bene e il futuro del Paese.