Costato solo 2500 dollari, Amiko è il film realizzato dalla regista più giovane che sia mai stata ospitata dalla selezione di Forum alla Berlinale: Yoko Yamanaka, classe 1997 e dunque appena ventunenne. La protagonista che dà il titolo al film è di poco più piccola: ha sedici anni e studia in un liceo di Nagano – è lì che un giorno incontra Aomi, compagno di classe di una sua amica. Una giornata passata con lui dona alla ragazza l’incrollabile certezza di aver trovato la sua anima gemella nella desolazione di un’adolescenza di provincia, vissuta con la segreta convinzione di non essere compresi, di trovarsi circondati da persone e passioni superficiali e poco interessanti. Aomi invece come Amiko ascolta i Radiohead e non le popstar più popolari – le «canzoni d’amore melense» – e come lei è in preda a un’irrequietezza senza nome. Non ci sono adulti a indicare la strada nel mondo del film di Yamanaka, né genitori né insegnanti: solo qualche breve comparsa per le strade di Tokyo quando Amiko scappa di nascosto per ritrovare Aomi – fuggito a sua volta con un’altra.

Realizzato con mezzi più che scarni – la regista stessa racconta di aver trovato i suoi attori su Twitter e Instagram, e che la piccola troupe era composta di soli amici disposti ad aiutarla – il film sovrappone il suo punto di vista a quello della giovane protagonista, vede il mondo attraverso i suoi occhi e attraversa un anno della sua vita – quello che trascorre dal primo incontro con Aomi alla decisione di andare a cercarlo a Tokyo – come in un diario segreto dell’adolescenza in cui vengono annotati brevi ricordi di una giornata, riflessioni, nuovi incontri, turbamenti amorosi e ore monotone.

Come la Zazie di Louis Malle o l’Antoine Doinel di Truffaut – di cui condivide anche le suggestioni autobiografiche: Yamanaka come la sua protagonista è di Nagano e ha vissuto a Tokyo per studiare cinema – Amiko vaga senza paura per la capitale, tra stranezze e luci abbaglianti, concentrata solo sulla sua «missione» in un film che abbraccia con affetto la sua voglia di scoperta.

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Dal punto di vista di un’adolescente, stavolta del New Jersey, è raccontata anche la storia di Madeline’s Madeline di Josephine Decker (Forum), regista americana che cerca letteralmente di collocare chi guarda all’interno della testa della giovane Madeline, nella sua percezione alterata della realtà. A differenza dei normali turbamenti dell’adolescenza di Amiko, Madeline ha infatti dei problemi psichiatrici: è anoressica e soffre di episodi psicotici. La sua terapia, all’apparenza, sono le lezioni di teatro che segue a New York dove è la prediletta dell’insegnante di recitazione Evangeline, nella quale Madeline cerca quel punto di riferimento assente in sua madre, che la soffoca con le sue paure.

Senza che la protagonista ne sia pienamente consapevole, poco alla volta Evangeline modifica però lo spettacolo a cui la compagnia sta lavorando per «cucirlo addosso» a Madeline stessa e al suo disagio, per «impadronirsi» della sua malattia mentale e metterla in scena. I suoni e le parole si sovrappongono, le immagini sono sfuocate, i primi piani troppo «vicini», asfissianti, per riprodurre la percezione alterata di Madeline nei confronti di una realtà che spesso incombe su di lei come un puzzle senza soluzione.

Ma il film di Decker, che vorrebbe interrogarsi sulla natura del disagio di Madeline e su cosa significhi per le persone che le stanno vicino, si perde proprio in questa scelta puramente di stile che – a differenza della sincera scombinatezza di Amiko – non corrisponde a un reale punto di vista sulla sofferenza della malattia mentale.