Da qualche parte Patrick Leigh Fermor ha ricordato che amicizia e scrittura sono intimamente legate. Che anzi, quando si scrive, lo si fa come pensando a un very close friend, a un amico molto stretto. Non è un caso, dunque, che il British Museum – fino a oggi, 15 luglio – ospiti una mostra come Charmed lives in Greece, imperniata su una triplice, straordinaria amicizia (i curatori Evita Arapoglou, Ian Collins, Michael Llewellyn-Smith e Ioanna Moraiti sono anche gli autori dei testi che compongono il bel catalogo, ed. Leventis Gallery, £ 30,00). Visitarla vuol dire, in effetti, ascoltare un racconto: la storia di come la vita di uno dei maggiori scrittori di viaggio del Novecento – Fermor (1915-2011) – si intrecci con quella di due pittori e suoi grandi amici: il greco Niko Ghika (1906-1994) e il britannico John Craxton (1922-2009). Sullo sfondo, naturalmente, la Grecia. Senza concessioni, però, al ricordo – magari un po’ naif – di un’Ellade antica, quella inseguita da tanta cultura di inizio secolo. Basterebbe rileggere, da noi, i viaggi in Grecia di Mario Praz o di Emilio Cecchi, nei primissimi anni trenta. Gli stessi anni in cui proprio Fermor, intanto, attraversava a piedi l’Europa, partendo dai Paesi Bassi fino a raggiungere Costantinopoli e poi il Monte Athos, e mostrando una qualità diversissima nel rapporto fra esperienza e cultura, con uno sguardo per così dire privo di nostalgia (il lettore provi, per credere, un libro come Roumeli, non ancora tradotto in italiano, e dedicato a una Grecia tutt’altro che classica e marmorea).
La Grecia di Fermor e compagni è quella del dopoguerra, poi della dittatura, della difficile ripresa e infine dei primi presentimenti di un turismo di massa. Il percorso, più ancora che dalla cronologia, è scandito geograficamente. Mentre attraversa le varie sale, il visitatore risale sì l’onda degli anni, ma vede soprattutto sfilare i luoghi: si potrebbe anzi dire che ciascuna di queste tre vite è legata in particolare a un diverso luogo, destinato a dare forma a una specie di mitologia personale. I tre si incontrano per la prima volta a Londra, proprio sul finire della guerra, quando Ghika conosce un giovanissimo Craxton (che da lui imparerà non poco, e la cui exhibition al British Council, nel ’46, si gioverà di un’introduzione dello stesso Ghika); e poi Fermor, che in quel giro di tempo è una sorta di motore fondamentale degli intensi scambi culturali fra Grecia e Inghilterra.
Ma è l’isola di Hydra – nel golfo di Saronico, di fronte all’ala orientale del Peloponneso – a rinsaldare il legame fra i tre. La casa di famiglia di Ghika diventerà spesso un rifugio per gli amici: qui arrivano fra gli altri Giòrgos Seferis, Isaiah Berlin e Mawrice Bowra; nonché Henry Miller e George Katsimbalis (una foto del 1939 li ritrae a Hydra, e di lì a poco, nel ’41, Miller farà di Katsimbalis il personaggio del suo Colosso di Maroussi). Qui, nel ’52, arriva anche Fermor, e vi trascorre ben due anni, ospite in compagnia della moglie Joan. A Hydra soggiornerà, a più riprese, anche Craxton. La stanza dedicata a Hydra è intanto un’ottima metonimia dell’intera ricostruzione. A farla da padrona e a guidare il visitatore è la figurazione: il paesaggio isolano è infatti trasfigurato nelle varie tele dedicategli da Ghika, fra le quali spicca forse, oltre a un dipinto di larghe dimensioni intitolato semplicemente Hydra, una Wandering moon over a dead city, dove la lezione cubista – Picasso aveva peraltro visto le opere di Ghika, nel ’27, a Parigi – riduce le forme dell’isola a uno spazio labirintico, su cui troneggia misteriosa la luna, e da cui – tratto tipico di tutta la pittura di Ghika – la figura umana è completamente assente o solo allusa (altrove trionfano alberi, rocce e aquiloni).
Accanto al figurativo, si apre comunque lo spazio della scrittura. Ovvio che questo sia anzitutto il dominio di Fermor: l’epistolografo – ma molte sono anche le lettere di Ghika e Craxton custodite e esposte – oppure il narratore di paesaggi, che ribattezza Hydra una sorta di «inviolate island». E proprio nella casa dell’amico porterà a termine il suo libro forse più noto in Italia, Mani (Adelphi), il racconto dei suoi viaggi nel Peloponneso. Quando esce, nel ’58, Mani avrà peraltro una copertina disegnata da Craxton, un occhio nel cielo che guarda un paesaggio turrito: e non si può non pensare alla cover anche come a una citazione-omaggio di un dipinto di Ghika, The black sun, dove un sole-occhio svetta su una vegetazione colorata.
Proprio il Peloponneso è il secondo, immancabile luogo-chiave. Dopo che la casa va in fiamme, nel ’61 – Ghika e la moglie, Barbara, non vorranno più tornare sui resti dell’edificio – il centro del triangolo si sposta a Kardamyli. A metà degli anni sessanta Fermor farà costruire appunto in questo angolo sperduto del Mani una casa in cui rimarrà fino alla fine della sua vita, e in cui gli andirivieni dei sodali diventeranno ancora una volta frequentissimi. A catturare l’attenzione, stavolta, è un oggetto: una Lettera 32, la macchina da scrivere di Fermor. Ma è suggestivo che, accanto a questa, faccia capolino una macchina fotografica, appartenuta a Joan, la già citata moglie (della quale Patrick schizza un intenso disegno a matita, riposto nella stessa teca): una sorta di duetto artistico-coniugale che è segno di una presenza effettivamente fondamentale nella vita di Fermor, un connubio amoroso che è stato anche, a sua volta, una forma di liberissima amicizia (ora Simon Fenwich la racconta in una biografia, Joan, uscita per Macmillan alla fine del 2017). E la fotografia, intanto, è una delle componenti fondamentali di questa mostra: come per la bella foto – che finirà sulla copertina adelphiana del postumo La strada interrotta – in cui Fermor è in compagnia di una capra (!), ritratto appunto da Joan (in queste stesse settimane, fra l’altro, è il Museo Benaki di Atene a dedicare una temporanea proprio allo sguardo artistico di Joan, Photographs of Joan Leigh Fermor – Artist and Lover).
A un’isola che pure è importantissima per Fermor – che lì combatte e diventa un eroe della guerra al nazismo – cioè Creta, è invece legato indissolubilmente il terzo protagonista, Craxton. John vi sbarca per la prima volta nel 1947, per sistemarsi – dal ’60 – nella parte ovest, in una casa direttamente affacciata sul porto della cittadina di Chania. Temi e figure cretesi sono via via pervasivi dentro la sua arte, come nei paesaggi dai colori vivi, intensamente espressionisti, popolati di capre, o altrove di gatti; o negli splendidi ritratti, sia a matita che a olio, che inseguono figure di semplicità, come i pastori, o gli amati marinai: uno Still life with three sailors sembra quasi giocare, misteriosamente, il ruolo di silenziosa mise en abime dell’intero percorso espositivo, con tre marinai, appunto, intorno a un tavolo, intenti al convito.
La chiusura è dedicata agli ultimi anni – occupati in realtà anche da un altro luogo, Corfù, dove Ghika si trasferisce dopo l’incendio a Hydra – e infine dal congedo fra i tre. Il primo ad andarsene è proprio Ghika, nel 1994. Craxton morirà solo quindici anni dopo. A sopravvivere a entrambi è Fermor. L’ultimo corridoio li vede in tre scatti fotografici in cui la vecchiaia si è impadronita malinconicamente dei loro volti. Consola, però, che una parola spesso ritornante, fra le pagine di Fermor qui citate fra pareti e carte, sia felicità: una happyness raggiunta grazie all’incontro gratuito con l’altro, oltre che alle sue splendide, solitarie suole di vento.