«Mi, me voio ben / per tante robe: / perché son bona / perché go patido / perché go savudo far qualcosa / e vìver, dopo tanto, come che intendevo». Questa manciata di versi, tratti dalla raccolta Fèrmite con mi (1962), potrebbe idealmente inquadrare il profilo di Anita Pittoni, scrittrice triestina che diede vita alla straordinaria esperienza delle Edizioni dello Zibaldone, la cui sede si trovava nel capoluogo giuliano al n. 1 della centralissima via Cassa di Risparmio. In realtà si trattava della sua residenza, condivisa con il compagno Giani Stuparich, dove si svolgevano sin dal 1941 i celebri incontri – prima al sabato, poi di martedì – che coinvolgevano alcune tra le figure di spicco dell’intellighenzia triestina: oltre a Saba, Giotti e Stuparich, bisogna ricordare perlomeno Budigna e Quarantotti Gambini. In ogni esemplare dei primi volumetti era presente, nell’antifrontespizio, l’elegante marchio della casa editrice, manoscritto dalla stessa Pittoni: Zbe. Il medesimo logo, contornato da un cerchio, era stampato anche in quarta di copertina. Il progetto grafico era della stessa Pittoni che, durante gli anni della giovinezza, si era segnalata come stilista e arredatrice in importanti manifestazioni italiane e internazionali, tra cui alcune Biennali veneziane (disegnò, oltre ad abiti, pannelli murali e stoffe d’arredamento – da lei definiti ironicamente strazeti –, anche costumi teatrali: come per L’opera da tre soldi di Brecht, allestita da Anton Giulio Bragaglia a Milano nel 1930 con il titolo La veglia dei lestofanti).
In quest’ultimo decennio si è tornato a parlare della Pittoni dopo il fortunato ritrovamento su una bancarella del Diario 1944-1945 da parte dell’antiquario e studioso Simone Volpato, pubblicato nel 2012 con la sigla editoriale SVSB in un’edizione impreziosita da fotografie e documenti inediti. La casa editrice Biblohaus licenzia ora Penso a te, che sei tutt’uno con la poesia di tuo padre Lettere inedite di Anita Pittoni e Linuccia Saba (1957-1966) (pp. XXVIII-258, € 15,00) che raccoglie il carteggio, curato da Gabriella Norio, tra la figlia di Saba e l’animatrice dello Zibaldone, conservato presso la Biblioteca civica Attilio Hortis di Trieste. L’amicizia tra queste due donne, dal forte temperamento ma dall’indole alquanto diversa, derivava dalle comuni frequentazioni e dalla pubblicazione nel 1950 della plaquette Uccelli, contenente undici poesie, già edite in «Botteghe Oscure», che rappresentano un’anticipazione della silloge licenziata l’anno successivo con il titolo Uccelli – Quasi un racconto nella collana dello «Specchio» mondadoriano.
Dopo quella felice esperienza si prospettò il progetto di allestire un altro libretto di Saba e la scelta cadde su Quello che resta da fare ai poeti, apparso nel ’59, dopo che casualmente Linuccia aveva ritrovato il manoscritto: si tratta di un breve saggio, celebre per il riferimento che fa l’autore alla «poesia onesta», inviato nel 1911 alla «Voce» per essere accolto nella rivista diretta da Prezzolini. Il testo non fu pubblicato dal periodico fiorentino (si ricordi che il secondo libro di Saba Coi miei occhi venne stampato proprio dalle Edizioni della Voce nel ’12) forse per l’opposizione di Slataper che era allora segretario della rivista. Alcune lettere riguardano la ricerca fatta dalle due amiche al fine di appurare che fosse effettivamente un inedito (Saba era scomparso nell’agosto del ’57), soffermandosi intorno a particolari relativi alla promozione del libretto che accoglie al suo interno una serie di fac-simili del brogliaccio originale. La Pittoni scriverà la nota introduttiva, ricostruendo la vicenda del progetto editoriale, nato in occasione della recita del testo sabiano improvvisata da Carlo Levi, compagno di Linuccia, in un’occorrenza conviviale in cui erano presenti anche Stuparich e Giorni.
La figura di Saba è campale in questo carteggio: invano la Pittoni cerca di predisporre due volumetti di Lettere a Lina e Lettera a Linuccia e numerosi sono gli scambi di informazioni su intellettuali che gravitavano intorno al poeta del Canzoniere, soprattutto in funzione dell’allestimento del volume di Prose mondadoriane, curato da Linuccia nel ’64 con prefazione di Guido Piovene, nonché di un progettato epistolario che non vedrà mai la luce. Sfilano così in queste pagine, oltre a figure autoctone come Maria Lupieri, Stelio Mattioni o l’avversata Nora Baldi, intellettuali del calibro di Giacomo Debenedetti, Elsa Morante, Renato Guttuso, Libero Bigiaretti. Ma non mancano richiami a Svevo e Giotti, entrambi accolti nel catalogo dello Zibaldone (indimenticabili di quest’ultimo i due volumetti intitolati Versi e Appunti inutili, rispettivamente del ’53 e del ’59). Toccante la testimonianza su Nina, moglie di Giotti, che, a distanza di parecchi anni, aspetta il rientro dei figli dispersi in Russia.
Nonostante sia improntato a un’essenzialità di taglio pragmatico, non esente da sviste dovute all’urgenza compositiva, questo «piccolo romanzo epistolare» – come lo definisce Roberto Benedetti nell’accurata postfazione – riserva al suo interno qualche delicato cammeo, come quando Linuccia scrive da Roma alla sua corrispondente: «Il cielo, il tempo, la mia salute ed i miei nervi sono tutti marzolini e mutano ad ogni battito di ciglio; è il marzo, davvero, un mese difficile; il mese in cui è nato Papà».