«C’è chi si chiede ancora se gli Stati Uniti vogliono mantenere uomini e basi militari in Afghanistan, dopo il 2014. È una domanda ingenua. Certo che lo vogliono! Sono qui per rimanerci, e credo ci riusciranno». Chief reporter per l’agenzia giornalistica Pajhwok nella parte occidentale del paese, sguardo sveglio e modi affidabili, Ahmad Qureishi è un giornalista rigoroso e senza peli sulla lingua. E sembra dare per scontato ciò che ha sostenuto qualche giorno fa l’ambasciatore americano a Kabul, James B. Cunningham, quando ha escluso che gli Stati Uniti ritirino tutti i soldati, con la fine della missione Isaf della Nato: «L’opzione zero non è una scelta che sosteniamo. Non riteniamo che sia nell’interesse del popolo afghano o degli Stati Uniti».

Presentata all’inizio dell’anno come un’ipotesi plausibile da Ben Rhodes, vice-consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama, oggi che è stata definitivamente accantonata l’opzione zero appare come un bluff per esercitare pressioni sul governo Karzai. Da mesi è in atto infatti un duro braccio di ferro sull’accordo bilaterale di sicurezza tra Afghanistan e Stati Uniti, che dovrebbe determinare la presenza post-2014 degli americani. I rapporti sono burrascosi: gli americani non si fidano di Karzai e lui ancora meno degli americani. Soprattutto ora, dopo il “pasticciaccio brutto” di Doha, la capitale del Qatar dove i Talebani, su iniziativa degli Stati Uniti, hanno inaugurato un ufficio politico. Presentato come sede dell’Emirato islamico d’Afghanistan, una sorta di governo in esilio dei «turbanti neri» con tanto di bandiera sventolante, l’ufficio ha fatto infuriare Karzai, che ha deciso di interrompere i negoziati sull’accordo bilaterale di sicurezza.

A distanza di qualche settimana, sembra che i toni siano tornati nella norma, tanto che pochi giorni fa il generale Martin Dempsey, capo di Stato maggiore della Difesa Usa, ha detto di sperare che l’accordo verrà firmato entro ottobre, mentre Karzai ha lasciato trapelare che è pronto a firmarlo, a condizione che rispetti la sovranità e gli interessi afghani.

Interessi e sovranità

Ma è proprio questo l’interrogativo che divide gli afghani: quali sono gli interessi dell’Afghanistan? Come garantirne la sovranità? Le risposte variano da provincia a provincia, da persona a persona, come risulta da una ricerca che chi scrive ha condotto per il network Afgana (www.afgana.org) e che verrà presentata a settembre. Le posizioni maggioritarie sono due, diametralmente opposte: quella di chi accetta le basi militari come un «male necessario», una forma di protezione dalle interferenze dei vicini e una garanzia che l’Afghanistan non verrà nuovamente abbandonato dalla comunità internazionale, e quella di chi invece pensa che possano provocare ulteriori interferenze e ledere la già precaria sovranità del governo. Tra le persone intervistate, prevale quest’ultima lettura.

Tutte le volte che ci siamo incontrati, Ahmed Qureishi non ha mai risparmiato critiche anche dure agli americani, al loro «doppio binario, con il quale aiutano sia il governo afghano che gli insorti», eppure oggi è tra quanti non vedono nulla di male nella loro presenza anche dopo il 2014: «Dall’Oman al Bahrein, sono decine e decine i paesi che ospitano basi militari americane. Mi chiedo perché non possa accadere anche da noi». «Le basi e i soldati americani garantiscono una maggiore stabilità. Se dovessero andar via del tutto, il paese rischierebbe un nuovo confitto interno. Abbiamo passato dei terribili decenni di guerra e non vogliamo tornare indietro», spiega a Mazar-e-Sharif Khalilullah Hekmati, il direttore dell’organizzazione non governativa Better Afghanistan, il quale vede la presenza straniera come un deterrente rispetto a un eventuale conflitto interno.

Molto più a sud, nella turbolenta provincia di Farah, a indicare i timori legati alla partenza degli stranieri è il religioso Ruhal Ahmad Rohani, responsabile del dipartimento per l’Haji (il pellegrinaggio alla Mecca) e già a capo della Shura-e-Ulema (il consiglio dei religiosi): «Ci sono due rischi principali: quello di una nuova guerra interna e quello di interferenze pesanti da parte di Iran e Pakistan». Per Rohani, un omone dalla faccia bonaria e la lunga barba, che ricorda con un pizzico di civetteria quando era costretto a tenere sotto il tavolo il suo kalashnikov, la soluzione non sta nel concedere carta bianca agli americani, ma nel rafforzare l’esercito afghano: «È essenziale avere un esercito forte e preparato. La difesa della nazione va affidata al nostro esercito, non agli stranieri», rivendica con orgoglio, pur riconoscendo l’inaffidabilità delle forze di sicurezza afghane. Come lui, molti altri dubitano che le forze locali siano in grado di garantire la sicurezza sull’intero territorio. Lo stesso colonnello Ghoos Malyar, a capo delle polizia di Farah, non fatica ad ammetterlo. Lo incontro in un caldissimo primo pomeriggio estivo nel suo ufficio, arredato con pesanti divani e, sulla scrivania, gli immancabili fiori finti ricoperti di polvere, a ravvivare una stanza dove regna una calma letargica. «È essenziale che le nostre forze di sicurezza possano contare anche in futuro sul sostegno degli stranieri – dichiara senza mezzi termini -. Abbiamo fatto molti progressi ma dobbiamo lavorare ancora molto. Inoltre, non abbiamo mezzi di combattimento adeguati». Quelli che ci sono, spesso risultano inutili: secondo un recente rapporto dello U.S. Special Inspector General for Afghan Reconstruction, i 780 milioni di dollari stanziati dal Pentagono per l’acquisto di 48 velivoli militari per l’unità area Afghan Special Mission Wing (SMW) sarebbero soldi sprecati: la maggior parte dei 47 piloti afghani non saprebbero volare di notte, e ci vorranno 10 anni prima che l’unità di combattimento diventi operativa.

Il timore delle interferenze

Guardando a ovest, verso il confine con l’Iran e a est, verso il poroso confine con il Pakistan, l’inesperienza dell’esercito afghano appare ancora più preoccupante: «La nostra posizione geografica e la nostra storia ci insegnano che abbiamo bisogno di qualcuno che ci sostenga. Se gli stranieri se ne andassero del tutto, Iran e Pakistan non ci lascerebbero vivere in pace. I nostri vicini devono sapere che, nel caso volessero attaccarci, ci sarebbero delle reazioni, e che attaccando noi attaccano la Nato», dice Sher Alam Amlawal, che insegna Legge e Scienze Politiche all’Università privata Aryana di Jalalabad, verso il confine con il Pakistan. La tesi di Sher Alam Amlawal sorprende: poco prima aveva accusato gli americani di «doppiogiochismo», e ora eccolo a chiedere il sostegno degli americani, anche se «indiretto, senza interferenze». Come spiegarlo? Con il fatto che non si fida degli americani, ma ancora meno dei pakistani. I primi occupano militarmente il suo paese, dicono di voler combattere il terrorismo «ma sono qui per i propri interessi». I secondi «finanziano i talebani» e non esitano a inviare attentatori-suicidi nelle città afghane. Entrambi sono pericolosi, sostiene Sher Alam Amlawal, ma i primi un po’ meno dei secondi, perché hanno ambizioni strategiche, regionali, non territoriali, come ricorda anche lo studioso Thomas Barfield in Afghanistan. A Cultural and Political History. I primi sono in Afghanistan per controllare l’Asia centrale, i secondi mirano al territorio afghano: per gli afghani, spesso i veri «imperialisti» sono i pakistani.

All’obiezione che la presenza degli americani è destinata a provocare maggiori interferenze, risponde a distanza Zamir Saar, che ha abbandonato il lavoro di giornalista per insegnare letteratura in lingua pashto alla Balkh University: «Le basi miliari avranno inevitabilmente delle conseguenze su scala regionale, ma sono comunque un fattore positivo. La Russia ha distrutto il paese e poi lo ha abbandonato; l’Iran già ora è nemico dell’Afghanistan. Se gli americani ci lasciano, chi ci protegge?», chiede retoricamente davanti al santuario di Hazrat Ali. La posizione di Zamir Saar è simile a quella di Asadullah Larawi, responsabile del Civil Society Development Center di Jalalabad: «Gli Stati Uniti sono il paese militarmente più forte al mondo. Se restassero sarebbe un beneficio, perché i nostri vicini eviterebbero di interferire. Nel caso se ne andassero, il Pakistan creerà nuovi problemi e ci sarà il rischio di una nuova guerra civile. Se i vicini sono preoccupati delle basi americane, è un problema loro, non nostro».

Il discorso di Larawi non convincerebbe Mohammad Asif Samin, un cinquantenne dal fisico asciutto e lo sguardo sicuro, tra i più stimati poeti locali in lingua pashto, già docente universitario: «La questione per me è molto semplice. Gli eserciti stranieri, in primo luogo quello degli Stati Uniti, sono sul territorio afghano. Questo produce e alimenta il conflitto. Ciò significa che la via per la pace presuppone che gli eserciti stranieri si ritirino e che non interferiscano più». Per Naqibullah “Saqib”, preside della Facoltà di scienze politiche della Nangarhar University, «se gli americani decidono di mantenere delle basi militari, c’è il rischio che i pericoli aumentino».

Aiuti e ulteriori inimicizie

Anche a Maimana, capoluogo della provincia di Faryab, al confine con il Turkmenistan, c’è chi pensa che gli americani non portino che danni: «Con le basi americane otterremmo l’aiuto di un paese importante, ma provocheremmo ulteriori inimicizie. Cosa ci conviene? La storia dovrebbe insegnarci qualcosa: quando i russi hanno invaso l’Afghanistan, molti paesi hanno cominciato a tramare in Afghanistan per allontanarli. Cosa accadrebbe se gli americani rimanessero?», si chiede preoccupata Bilgees Attaye, che dirige la Developing and Education Organization for Women. Della risposta si dice sicuro Kazen Amini. Poeta e scrittore, Amini insegna al Faryab Teaching Training Center di Maimana ed è responsabile dell’associazione culturale Zahiruddin Faryabi. Sospettoso verso gli stranieri, soprattutto inglesi e americani – «perché sono loro ad alimentare l’instabilità e a trarne vantaggio» – sostiene che né lui né l’Afghanistan hanno ottenuto benefici dalla presenza degli stranieri in questi dodici anni. Per questo, «che se ne vadano!».

È orientato al pragmatismo anche il ragionamento di Aziz Rahman Saddiqi, presidente dell’Association for Solving Community Problems di Jalalabad: «La presenza delle truppe straniere è il pretesto con il quale i Talebani giustificano la guerra. Quando dicono che non vogliono vedere soldati stranieri, la gente delle campagne è d’accordo. Se gli stranieri se ne vanno, non ci saranno più ragioni per combattere e verrà meno il sostegno ai movimenti che combattono gli stranieri». Secondo Aziz Rahman Saddiqi, la forza dei Talebani deriva dalla presenza degli stranieri.

[do action=”quote” autore=”Mohammad Asif Samin, poeta “]«Karzai ha detto che potrà concedere l’immunità ai soldati americani se gli Stati Uniti riconoscono la sovranità dell’Afghanistan. Ma è un paradosso! Concedere l’immunità agli altri significa negare la nostra sovranità. Con i soldati stranieri sul nostro suolo, è impossibile dirci sovrani»[/do]

Tra quanti si augurano che, con la fine del 2014, tutti i soldati stranieri lascino il paese, molti lo fanno perché rivendicano una piena sovranità. Il poeta Mohammad Asif Samin ne sintetizza il pensiero: «Gli americani sono arrivati qui senza essere invitati, usando la forza, e ora pretendono di lasciare delle basi militari. Non ci trattano come cittadini di uno stato sovrano, ma come schiavi. È inaccettabile», argomenta con tono pacato. Per lui, le condizioni poste da Karzai per accogliere le richieste statunitensi sono artifici retorici, che nascondono una contraddizione di fondo: «Karzai ha detto che potrà concedere l’immunità ai soldati americani se gli Stati Uniti riconoscono la sovranità dell’Afghanistan. Ma è un paradosso! Concedere l’immunità agli altri significa negare la nostra sovranità. Con i soldati stranieri sul nostro suolo, è impossibile dirci sovrani».