In Stop Making Sense abbiamo portato sul palco tutto quello che ci vuole per mettere su uno show, perché il pubblico lo vedesse. Qui ho tolto tutto. Mi sono chiesto: è possibile inscenare uno spettacolo in cui ci sono solo i musicisti e niente altro?». Così David Byrne descrive a «Rolling Stone» una delle idee fondanti del suo bellissimo American Utopia, il musical atipico che -a conclusione di un lungo tour – ha portato a Broadway, e che chiude questo week end dopo otto settimane di tutto esaurito all’Hudson Theater. Se è vero che, in confronto all’elaboratissima performance tecno pop di Stop Making Sense, American Utopia (Byrne e undici musicisti/cantanti/ballerini, tutti in grigio, tutti scalzi sul palcoscenico nudo, dove non si vede l’ombra di un cavo che esce dagli strumenti) sembra un’esperienza quasi ascetica, Jonathan Demme, che diresse l’indimenticabile documentario su Stop Making Sense avrebbe amato questo show.

E NON SOLO perché -come spesso nella sua carriera multimediale- il minimalismo di Byrne qui tradisce idee di luci, regia e coreografia sofisticatissime; ma soprattutto nello spirito. Non è un caso che alcuni dei giornalisti che lo hanno recensito abbiano trovato dei paragoni tra in questo spettacolo, e Mr. Rogers’s Neighborhood, lo storico programma Tv per bambini (celebrato quest’anno anche in un film con Tom Hanks): in American Utopia Byrne -il sorriso marziano, la voce limpida, lo sguardo furbo da bambino; a 67 anni in scena rimane magnifico – è un narratore/filosofo scherzoso e saggio, dolce e irriverente, con cui navigare (per un’ora e quaranta senza intervallo) la confusione del nostro tempo. Chi ha mai visto il suo sottovalutato True Stories, pensi al personaggio/guida che Byrne interpretava nel film – solo senza l’auto rossa, il grande capello e la ieraticità; ma con un’iniezione di empatia. Per essere uno spettacolo che inizia con la dissezione di un cervello di plastica (Byrne ci spiega come la grande maggioranza delle connessioni cerebrali che abbiamo da piccoli scompaiano mano a mano che si diventa adulti), che include la recitazione di un testo dadaista di Hugo Ball e che finisce con una grandiosa rendition di A Road To Nowhere (letteralmente, una strada che non va da nessuna parte), American Utopia è uno spettacolo stranamente ottimista, energizzante. No, Byrne non si è trasformato in un dottrinologo del self help anti-trumpista per liberal sull’orlo della crisi di nervi. Il suo «grido» è un canto/danza condiviso. «Qui ci siamo solo noi, e voi» dice a un certo punto dopo aver presentato il suo cast di artisti di tutti i colori e da tutto il mondo.

QUANDO spiega come gli studenti di un liceo di Detroit abbiano impresso un significato tutto diverso alla sua Everybody’s Coming to My House, si prende in giro («io sono io, quindi quando la canto sembra che speri che ognuno se ne stia a casa sua. Nelle loro voci era l’opposto»); come quando «getta» al pubblico i nomi di Eric Gardner, Treyvon Martin e degli altri afroamericani uccisi dalla polizia, cantando Hell You Talmbout di Janelle Monàe («avevo sentito la canzone durante la marcia delle donne a Washington; ho chiesto a Janelle se non le scocciava che la cantasse un uomo bianco di mezza età»). Intitolato come il suo ultimo album, American Utopia è fatto solo di una piccola porzione di quelle canzoni, unite a pezzi scelti lungo tutta la carriera di Byrne e intessuti nel dialogo con il pubblico. Astuto uomo di spettacolo, ci fa sentire da lontano le note di Burning Down the House mentre spiega che la direzione del teatro (ci) ha dato il permesso di ballare- basta lasciare liberi i corridoi. In un attimo, l’intero Hudson Theater è in piedi. Non ci si siede fino alla fine. Fuori, vicino all’uscita, c’ è un banchetto dove registrarsi per votare.

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