In America latina siamo alla fine di un ciclo politico. Novità progressiste si erano concentrate nello scorso ventennio in questa area di mondo con caratteristiche che non avevano precedenti nella storia del continente americano. Con poche eccezioni (Messico – ma poi è arrivata la presidenza non reazionaria di Andrés Manuel López Obrador nel 2018 – e Colombia), i risultati delle elezioni registravano lo spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli paesi. Anche sul fronte dei movimenti sociali (a iniziare da quello «indigenista») si assisteva a un positivo protagonismo come effetto dei Forum «no global» di Porto Alegre. Questo nuovo panorama politico sembrava voltare pagina all’alternativa o fuochi guerriglieri o dittature militari o governi neoliberisti.

Mentre nell’ultimo ventennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa, in America latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex sindacalista Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002, seguiva Nestor Kirchner in Argentina, poi Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales nel 2005 in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista mentre si erano avviate in precedenza trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia.

A favorire questa stagione provvedevano una quasi inesistente crisi economica a iniziare dal 2008 rispetto a Europa e Usa, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington (le presidenze di Barack Obama), l’incrinarsi degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di una alternanza nelle leadership, il bisogno di pacificazione dopo anni di dittature militari e repressione. Negli ultimi tempi, invece, la sinistra perde le elezioni finanche nell’Uruguay di Pepe Mujica.
Prima la vittoria dei peronisti di destra in Argentina con Mauricio Macri (i peronisti di sinistra sono tornati di recente al governo), poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Rousseff e all’arresto dell’ex presidente Lula (di recente assolti dall’imputazione di aver stornato tangenti della società Petrobas verso il Partito dei lavoratoti, Pt), poi ancora le non buone notizie che giungono dal Venezuela in ginocchio che tuttavia non cede ai golpisti di Juan Guaidó.

Difficoltà si sono registrate pure nelle esperienze di governo progressiste di Cile ed Ecuador fino alla sconfitta di quei tentativi. Cuba, come al solito, fa caso a sé malgrado le speranze suscitate dal viaggio di Obama a L’Avana nel 2016 siano state cancellate.

Sarebbe tuttavia un errore pensare che non ci siano state debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste. Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in Parlamento una maggioranza anti-Roussef che ha permesso l’incarcerazione per lungo tempo di Lula oltre all’avvento alla presidenza di un reazionario old style come Jair Bolsonaro, le responsabilità non sono solo «esterne». Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto.

In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo che dopo notevoli successi economici arrancava di fronte alle richieste sociali di una inedita classe media. In Bolivia, l’ostinazione di Morales di ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha favorito il golpe delle scorse settimane: si è pure logorato il modello di sviluppo interamente incentrato sugli idrocarburi (lo segnalavano da tempo i cooperanti e i critici da sinistra di questa esperienza). Pure in Brasile e Venezuela non si sono create alternative al cosiddetto «capitalismo estrattivo». C’è pure una questione di fondo.

Politica e consenso hanno bisogno continuamente di rinnovarsi nelle idee, nei progetti, nelle leadership. Come ha scritto molte volte Saverio Tutino – un maestro del giornalismo che si occupa di questa parte di mondo – il «potere» è una sorta di malattia poco curabile: produce clientelismo, burocrazia, gerarchie che si credono inamovibili. Ecco perché bisognerebbe rimanere al governo per al massimo dieci anni – scriveva Tutino – e poi favorire il ricambio generazionale o l’alternanza.

Sono così giunti al pettine i tradizionali problemi dell’America latina: debolezza dei partiti e della democrazia, difficoltà delle alternanze al governo, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato, economia dipendente dagli Stati uniti, populismi di destra e di sinistra. In questa fase, rivolte popolari (drammatica la situazione in Cile con decine di morti, meno grave in Ecuador e Colombia) s’intrecciano con la rinnovata crisi delle politiche neoliberiste (lo spettro di altri Bolsonaro). Sull’eclissi delle passate esperienze progressiste occorre intanto riflettere criticamente.