Secondo un’inchiesta del Pew Center, pubblicata in occasione della Cop21 di Parigi, l’America latina è il continente che più si preoccupa per le conseguenze del cambiamento climatico. Su 45.000 persone intervistate in 40 paesi, solo il 25% considera il riscaldamento globale un problema molto serio (il 45% negli Usa e il 18% in Cina, i due paesi maggiormente responsabili per l’emissione di Co2). Nel Latinoamerica, invece, la coscienza dei rischi ambientali è molto alta, anche se variamente modulata nei singoli paesi: al primo posto, il Brasile (86%, la cifra più alta di tutti i 40 paesi), seguono il Cile (77%), il Perù (75%), il Venezuela (72%), il Messico (66%) e l’Argentina (59%).

Anche l’appoggio dei cittadini del Latinoamerica ai propri governi affinché agiscano per ridurre le emissioni di carbonio è elevato: arriva all’83%, con picchi di sfiducia verso i governi che, come quello messicano, hanno a cuore il portafogli dei grandi gruppi più che la salute del pianeta. La maggioranza dei latinoamericani sa di essere particolarmente esposta agli effetti estremi dei disastri naturali e all’alternanza di cicloni, inondazioni e siccità, particolarmente devastanti a seguito del riscaldamento globale. Il 59% degli intervistati si è detto infatti particolarmente preoccupato per gli effetti della siccità e della mancanza di acqua, il 21% per inondazioni e tempeste.

Nel 2015, il Brasile ha registrato livelli inediti di siccità con conseguente scarsità di acqua a San Paolo e in diverse altre città: il picco si è raggiunto tra aprile e maggio, quando è stata realizzata l’inchiesta. E anche Cile, Perù e Venezuela hanno sofferto pesanti siccità negli ultimi mesi dell’anno. Per il 2016, le conseguenze del cambiamento climatico si faranno sentire ancor di più in America latina. Secondo gli esperti, il fenomeno del Niñno diventerà quello del Niñ Godzilla: grandi inondazioni, siccità e scioglimento dei ghiacciai fino alla metà dell’anno.

In questi giorni, oltre 83.000 persone sono state evacuate a causa di piogge e inondazioni che hanno colpito in particolare Uruguay, Argentina, Bolivia e Paraguay. In Argentina non si vedevano inondazioni simili da 60 anni, il Rio Uruguay non cresceva così dal 1959 e, nel Rio Grande del Sur, in Brasile, dal 18 dicembre a oggi ha costretto alla fuga circa 1.800 famiglie. La maggior quantità di sfollati (oltre 72.000 persone) si è registrata in Paraguay. I disastri dovuti al cambiamento climatico – che nelle ultime tre decadi aumentano sempre più d’intensità – minacciano la sicurezza alimentare. «Il 25% del costo totale dei disastri naturali legati al riscaldamento globale ricade sul settore agricolo», ha segnalato un rapporto della Fao. Un peso che schiaccia soprattutto i paesi in via di sviluppo, dove il 75% della popolazione vive di agricoltura. Nelle zone fredde del continente, con l’aumento della temperatura e l’arrivo delle zanzare, compaiono poi anche malattie tropicali inesistenti prima.

In Bolivia – ha denunciato a Parigi il presidente Evo Morales – i ghiacciai hanno perso tra il 30 e il 50% di neve, con conseguente diminuzione dell’acqua disponibile per il consumo umano e l’agricoltura. Il lago Poopo, il secondo più grande della Bolivia dopo il Titicaca, è quasi ridotto a un deserto, e ha provocato la scomparsa di circa 200 specie di animali e piante. «Cambiare il sistema e non il clima», dicono i paesi socialisti dell’America latina, pronti ad assumere gli alti costi della riconversione ecologica nelle loro economie, che dipendono principalmente dagli idrocarburi.

Il Venezuela, che oltre a custodire le prime riserve di petrolio al mondo racchiude anche un grandissimo patrimonio di biodiversità, ha nel suo programma strategico «l’ecosocialismo». In questi giorni, il parlamento ancora chavista ha votato un’importante legge sulle sementi che proibisce l’uso degli agrocombustibili e la privatizzazione dei brevetti. Ma le grandi imprese confidano sul ritorno delle destre. Nello stato Lara, i sindacati hanno denunciato che, pur di non accettare le regole la Proagro-Protinal ha chiuso la fabbrica e ha ucciso oltre 105.000 galline.