Lo scrittore argentino Diego Fonseca sostiene (New York Times in spagnolo) che «quando il 10 novembre il generale Williams Kaliman, in tuta mimetica, ha “suggerito” a Evo Morales di abbandonare la presidenza della Bolivia ha fatto ben più che togliere di mezzo un movimento cittadino mediante un golpe: ha messo in chiaro che i soldati non hanno mai lasciato l’ombra del potere nelle lunghe decadi di ritorno alla democrazia dopo le dittature militari».
E che l’establishment militare in America latina «crede ancora di avere poteri superiori al dettato costituzionale».

Quanto accade in Bolivia non è infatti un caso isolato. Prima in Ecuador poi in Cile i militari sono stati utilizzati contro i manifestanti e per «mantenere l’ordine pubblico». In Cile le Forze armate sono tornate – come ai tempi di Pinochet- a occupare le strade con i carri armati per reprimere un vasto movimento popolare che chiede le dimissioni del presidente Piñera e una nuova Costituzione.

Da dieci giorni anche in Colombia le Forze armate hanno un ruolo centrale nel reprimere le manifestazioni popolari contro le troppe ingiustizie sociali ed economiche – oltre che da sempre nel boicottaggio degli accordi di pace con l’ex guerriglia.

In Guatemala i generali non hanno mai lasciato la presa sul potere dalla fine delle guerre – contro gli indios- degli anni ’80 e le Forze armate costituiscono l’apparato che sostiene il governo di Jimmy Morales. L’esercito in Honduras ha abbattuto il governo democratico di Manuel Zelaya nel 2009 e ha imposto quello repressivo di Juan Orlando Hernández, responsabile di aver portato il paese alla condizione di Stato fallito. In Messico i due presidenti precedenti l’attuale (Calderón e Peña Nieto) hanno schierato contro i cartelli del narcotraffico le Forze armate in una guerra (persa) che è costata decine di migliaia di vittime.

E anche López Obrador, usa i militari nella Guardia nazionale come forza di polizia con ampli poteri. Nel Brasile di Jair Bolsonaro «vi sono più di cento militari che ricoprono incarichi strategici».

«La tendenza alla rimilitarizzazione si constata, in diversi gradi, in gran parte» dell’America latina per «reprimere proteste e criminalizzare la società civile» ,ha dichiarato all’agenzia spagnola Efe Francisco J. Verdes-Montenegro, dell’Istituto Complutense de Estudios Internacionales. In Ecuador, in Cile e in Colombia i militari sono stati usati «come salvagente dei governi. Nel caso della Bolivia si retrocede a un passato che sembrava superato, con le Forze armate che fanno pressione per deporre presidenti e condizionare il potere civile».

Della stessa opinione è Olga Lucía Llera, professoressa dell’università colombiana Jorge Tadeo Lozano che ha dichiarato all’Efe che «l’uso dei militari nella risposta al disincanto sociale ricorda l’epoca in cui vi era un controllo estremo militare».
Ma, aggiunge, è «un riflesso dell’inefficacia dei governanti» attuali. Anche Verdes-Montenegro afferma che «il protagonismo del fattore militare nella politica latinoamericana – che implica un arretramento della democrazia- ha acquistato un maggior peso negli ultimi anni». Quando cioè il subcontinente è stato soggiogato a quelle politiche neoliberiste imposte in passato con le sciabole dai vari (generali) Pinochet, Videla (Argentina), Stroessner (Paraguay), Figuereido (Brasile),in un interminabile volo del Condor lanciato dall’allora onnipotente segretario di Stato Usa Henry Kissinger.
Secondo vari autori- Chomsky, Duffiel, Clapham tra gli altri- uno Stato è fallito quando è incapace di garantire i servizi basici, quando la corruzione e l’instabilità istituzionale sono alte e il deficit giuridico costante. Definizione che si può applicare alla maggioranza dei paesi dell’America del sud, un subcontinente in profonda crisi. Con una causa comune per tale fallimento: le politiche neoliberiste e con una importante conseguenza comune, la diseguaglianza tra la minoranza che continua a accumulare ricchezza e una maggioranza che impoverisce. I dati del Cepal (Commissione economica per l’America latina) confermano che da cinque anni le classi medie perdono potere d’acquisto e la povertà estrema cresce senza fine.
I focolai più caldi di quella che viene definita la questione sudamericana – il fallimento del neoliberismo, l’insufficienza dei populismi e l’acutizzarsi della questione razziale contro le popolazioni indigenene – per ora si concentrano in Cile e Colombia –paesi dove la conflittualità sociale è alta e, per quanto riguarda il secondo, impegnato per conto degli Usa a minacciare il governo bolivariano del Venezuela- e in Bolivia. Ma la tensione è forte anche in Perù, dove l’istituzionalità è di fatto garantita dalle Forze armate.
Le forze armate hanno un ruolo centrale anche nei due paesi più radicali del fronte progressista bolivariano, Venezuela e Cuba. Nel primo, i generali sono i più stretti alleati del presidente Maduro che grazie al loro appoggio ha potuto superare il tentativo di golpe istituzionale dell’«autoproclamato» (dagli Usa) presidente Juan Guaidó – ormai emarginato e contestato anche all’interno dell’opposizione.
Un caso del tutto particolare è quello di Cuba dove vi è una forte integrazione tra Partito comunista e Forze armate, conseguenza della conquista del potere (1959) da parte della guerriglia guidata da Fidel Castro. Oltre alla difesa del paese e della Rivoluzione il ruolo delle Far (Forze armate rivoluzionarie) come gestore di una parte consistente dell’economia cubana è stato accresciuto negli anni della presidenza (2006-19) di Raúl Castro. Il gruppo imprenditoriale delle Far, Gaesa, è un conglomerato che comprende almeno 57 companie -tra le quali quelle turistiche, Gaviota e Cubanacán, che possiedono più di 100 alberghi- e che controlla più del 65% dell’economia cubana.