Di grande utilità, per lo studio e la consultazione il volume a cura di Pier Paolo Poggio, Rivoluzione e sviluppo in America latina. Un altro capitolo – il IV – del corposo lavoro di ricerca su «L’Altronovecento, comunismo eretico e pensiero critico», sempre pubblicato da Jaca Book.

Tante le chiavi d’accesso per comprendere lo scenario latinoamericano nel post-’89 e le alternative che si sono aperte dopo gli anni di neoliberismo sfrenato, a cui le destre sperano adesso di poter tornare. Nutrito il parco degli autori, di varia curvatura, da Francois Houtart e Michael Lowy, da Roberto Regalado a Raul Zibechi, ad Aldo Zanchetta, Carlo Formenti, Antonio Moscato, Luciano Vasapollo… Quattro gli ambiti di riferimento che analizzano le rivoluzioni, i movimenti politici e la questione sociale, il pensiero della liberazione, il tempo presente e gli scenari.

Nel saggio introduttivo, il curatore presenta l’arco dei problemi e l’articolazione dell’indagine. Seppur da impostazioni diverse, gli interventi evidenziano gli elementi che saldano tra loro i tre grandi cicli in cui si declina la storia del Latinoamerica – quello precolombiano, il periodo coloniale, i secoli dell’indipendenza, spesso precaria e soggetta ai diktat nordamericani – : principalmente la questione della terra e il predominio economico, sociale, politico e in certa misura culturale, del grande latifondo, altra faccia dell’espropriazione delle popolazioni indigene. L’incapacità-impossibilità di realizzare la riforma agraria caratterizza ancora oggi un punto dirimente nella lotta dei contadini e degli indigeni. Il risveglio indigeno e contadino interroga le categorie d’analisi del marxismo da nuove angolazioni, consente al curatore il richiamo alla Russia del populismo rivoluzionario e al suo rapporto con il marxismo di allora, pone la lente sulle esperienze attuali modulate dal «socialismo del XXI secolo», che non rientrano «nella vasta famiglia politica di matrice europea».

Un punto agito oggi in Venezuela con le esperienze di municipalismo e autogestione – le comunas – e la loro inedita relazione con il governo centrale, ancora in via di definizione. Qui il volume ci sembra perdere un’occasione, quella di analizzare il livello più avanzato (e ardito) di sperimentazione del «socialismo bolivariano»: la relazione tra autogoverno e un nuovo stato, deciso a procedere nella transizione al socialismo anche senza aver compiuto una rivoluzione di stampo novecentesco come quella di Cuba.

Il saggio dell’economista Luciano Vasapollo mette in luce l’ampiezza del tentativo compiuto da Chavez con la Ley de tierras e proseguito poi col Plan nacional Ezequiel Zamora, ispirato allo storico leader contadino venezuelano (1817-1860), che ha lottato per il recupero delle terre, per l’uguaglianza sociale e per i diritti dei settori più poveri della società. Solo nella sua prima fase, il Plan Zamora (approvato ad agosto del 2003) ha consegnato oltre un milione di ettari ai contadini. L’anno prima, la Ley de terra e quella contro la pesca a strascico delle grandi imprese multinazionali erano stati i principali detonatori del golpe a guida Cia compiuto contro Chavez: così come il governo e la distribuzione delle grandi risorse del Venezuela – petrolio, oro, coltan, acque e biodiversità – sono la vera posta in gioco dell’attacco furibondo sferrato dalle classi dominanti per farla finita con il socialismo bolivariano.

In Venezuela – ricorda ancora Vasapollo – il progetto di Legge di sviluppo agricolo e sicurezza ambientale include il concetto di sicurezza alimentare, di sviluppo agricolo sostenibile e il riconoscimento che il settore agricolo venezuelano è totalmente immerso nella globalizzazione. L’attività agricola, insomma, è considerata centrale nello sviluppo economico e sociale della nazione e l’alimentazione è un diritto umano fondamentale. A questo concorrono anche le cosmovisioni indigene (35 le popolazioni censite in Venezuela) e gli antichi saperi contadini.

Poggio ne rileva gli apporti per avanzare la critica al «neosviluppismo». Le cosmovisioni indigene – dice – «sono divenute degne di attenzione per la crisi irreversibile del modello capitalistico industrialista, a un tempo trionfante e sempre più palesemente insostenibile sul piano sociale e ambientale». Da qui lo spazio a quelle correnti di pensiero che, da Zibechi a Esteva, evidenziano (e anche estremizzano) in questa chiave la critica ai governi progressisti che, in Ecuador e in Bolivia, hanno spinto solo fino a un certo punto la critica promessa nelle costituzioni del nuovo secolo.

«Indipendenze-dipendenti» rimaste interne alla logica della struttura dominante che ne depreda e soffoca le potenzialità. Poco frequentato, nel libro, il tema del «potere popolare» (anche qui ci riferiamo ai Consigli comunali e alle comunas in Venezuela), analizzato invece soprattutto alla luce del modello zapatista del «trasferimento del comando» e del «camminare domandando», oppure – per altri versi – delle fabbriche recuperate in Argentina (Francesco Vigliarolo), e – per altri versi ancora – dei Sem Terra in Brasile.

«Indigenismo e potere politico: il caso dell’Ecuador», Carlo Formenti anticipa alcune riflessioni che svilupperà nel volume La variante populista, lotta di classe nel neoliberismo, edito da Derive Approdi. Nel suo lavoro, Formenti usa le esperienze latinoamericane che si richiamano al «socialismo del XXI secolo» per riportare all’Europa la necessità di battersi per la sovranità popolare e nazionale contro le oligarchie transnazionali. «E sconfiggere il populismo di destra con un nuovo populismo di sinistra». Una provocazione rivolta a tutte le sinistre («moderate, radicali e antagoniste»), incapaci di assumere appieno, nel post-novecento, le conseguenze della sconfitta del movimento operaio.

«Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra», scriveva Fanon raccogliendo il grido dei «dannati della terra». Il problema del populismo è sicuramente complesso. Vi sono risvolti che non riguardano soltanto l’America latina, ma il presente politico dei paesi capitalistici avanzati. Com’è noto, Ernesto Laclau spiegava così il fenomeno politico descritto, nel 2005, nel volume La razón populista: un’opera che ha segnato le analisi sull’America latina e sugli agglomerati politici nati dalla crisi dei partiti tradizionali, anche in Europa: «Il populismo non è una ideologia. È una forma di costruzione del politico che interpella quelli che stanno in basso di fronte al potere, passando sopra a tutti i canali stabiliti per veicolare le domande collettive».

D’altro canto, nel volume di Poggio, il capitolo sul Populismo in America latina è affidato a Gerardo Aboy Carlés e Julian Melo, che inquadrano il fenomeno soprattutto in prospettiva storica, consegnando al presente intuizioni, squilibri, porte aperte e questioni irrisolte «di una forma politica particolare, caratterizzata da un meccanismo specifico di gestione della tensione tra rottura e integrazione che caratterizza le identità politiche con aspirazioni egemoniche».

Egemonia, proletariato, nuova composizione di classe… Nell’America latina i popoli cercano un proprio cammino. Qui ne arrivano gli echi, in assenza di un pensiero comunista forte e soprattutto capace di agire. Nel volume di Poggi, emerge l’intuizione ancora attuale di Carlos Mariategui sulla «compresenza e simultaneità di tutte le epoche storiche sotto il dominio del capitale e la sua natura intrinsecamente coloniale, che controlla gli uomini e sottomette la natura a fini di profitto e per l’infinita accumulazione di se stesso».

Risuonano le parole di Edouard Glissant: un futuro vivibile sarà possibile solo rinunciando «all’immaginario di un’umanità a radice unica, che distrugge tutto, per entrare nel sistema complesso di un’identità di relazione» nella molteplicità del Tout-Monde: «un nuovo effettivo universalismo – riassume Poggio – che riconosca la pari dignità delle storie e delle culture, azzerando le pretese di superiorità legittimate dalla violenza».