L’autunno 2019 passerà forse agli annali della storia come il momento in cui la “catastrofe al rallentatore” della crisi ambientale è passata infine ad essere emergenza concreta.

Sono i mesi in cui gli Usa di Trump hanno ufficializzato il ritiro dagli accordi di Parigi – insufficiente ma essenziale tassello di un tentativo di risposta collettiva al mutamento climatico. E quelli in cui una adolescente ha espresso all’Onu tutta l’angoscia delle generazioni che dovranno far fronte a un futuro che sembra sempre più fosco

Suona la ritirata

A metà ottobre – mentre la stagione degli uragani caraibici si stemperava in quella degli incendi nell’ovest Americano  – la cronaca si è brevemente occupata della “rivolta di Del Mar”.

La facoltosa cittadina a nord di San Diego aveva rifiutato di adeguarsi alle normative richieste dalla Calfornia Coastal Commission. L’organo con giurisdizione sulle coste dello stato ha chiesto infatti ad ogni municipio affacciato sulla costa pacifica di sottoporre un piano regolatore capace di far fronte alle previsioni di erosione e inondazioni date ormai come scontate dalle proiezioni per i prossimi 50 anni.

In sostanza alle amministrazioni  locali si richiedono progetti di rafforzamento  e difesa delle coste (ricostituzione di spiagge erose, barriere artificiali, dighe foranee), ma la Commission si aspetta anche un progetto di “ritirata strategica”.

Alla luce dell’inasprimento dei fenomeni climatici le città devono approntare piani per l’abbandono delle fasce più prossime alle acque  e di ricollocamento delle popolazioni più a rischio.

È qualcosa già in atto da New Orleans a Miami (per non parlare delle Fiji o del Bangladesh) e che dà la misura degli impatti epocali a venire. A Del Mar però gli abitanti, perlopiù  miliardari poco disposti ad abbandonare ricche ville con vista sull’oceano, si sono rifiutati di contemplare questa ipotesi.

L’alluvione mappata

Oltre a dimostrare lo scarso spirito di corpo dei ricchi di fronte alle emergenze (lo avevano già fatto le controparti di Beverly Hills rifiutando di sospendere l’innaffiamento dei prati durante la siccità), il caso ha mostrato quanto sia impellente ormai la preparazione per il disastro ambientale prossimo e venturo.

Poche settimane appena dopo il caso Del Mar, l’innalzamento dei mari alimentato dallo scioglimento sempre più rapido dei ghiacci artici è tornato in primo piano.

Uno studio preparato da scienziati di Climate Action e pubblicato da Nature all’inizio di novembre, ha modellato le elevazioni topografiche più aggiornate raffrontandole  con le stime medie dell’innalzamento dei mari entro il 2050 per generare una mappa interattiva e ricercabile.

I risultati sono drammatici: si stima che fino a 190 milioni di persone vivano oggi su terre al di sotto di quello che sarà nel 2100 il limite massimo delle alte maree.

Sono previsioni che si riferiscono però ad uno scenario in cui vengano implementate misure per contenere le emissioni di carbonio.

Nell’ipotesi peggiore (aumento delle emissioni sulla traiettoria attuale) i profughi climatici – costretti ad abbandonare terre sommerse e divenute inabitabili entro la fine del secolo – potrebbero essere 630 milioni, 150 milioni già entro il 2050.

Miami, Shanghai, Bombay, Saigon, Venezia, New Orleans, sono fra le città che rischiano di perdere territorio o addirittura di inabissarsi.

Uno stravolgimento che interesserà anche i grandi delta – da Alessandria d’Egitto al Bayou della Louisiana. E un altra foto di un clima imbizzarrito dagli effetti sempre più concreti.

California Fire

In quegli stessi giorni Greta Thunberg passa in California e parlando a Los Angeles evidenzia quello che è già sotto gli occhi di tutti: le centinaia di migliaia di evacuati dalle fiamme che minacciano in quel momento lo stato sono le vittime concrete di un mutamento già abbondantemente iniziato e documentato: la forza inedita dei venti che soffiano sulle fiamme sono conseguenza di un clima sempre più squilibrato.

I californiani che fuggono sono da considerarsi profughi ambientali a  tutti gli effetti.

Tutto questo nell’ignavia più completa dei governanti.

Trump – la cui amministrazione considera tuttora il mutamento del clima una “truffa” – se la prende con le vittime. Minaccia di non autorizzare sussidi federali alla California perché il governatore dello stato non ha “rastrellato i sottoboschi” come gli aveva detto lui.

È “l’indifferenza depravata” di cui parla Robert Redford in una requisitoria contro l’uscita dal trattato di Parigi puntualmente sancita dal presidente pochi giorni dopo, il 4 novembre.

Lo scontro frontale fra Trump e la California racchiude al contempo l’urgenza ed il fallimento della risposta politica.

Le due amministrazioni non potrebbero essere più diametralmente contrarie su una lunga serie di temi, ma su nulla come sull’ambiente.

Emblematica la guerra sull’inquinamento atmosferico: Trump minaccia di abrogare la storica prerogativa californiana di stabilire norme sull’efficienza delle automobili – molto più severe di quelle che vorrebbe la Casa bianca trasformata in camera di commercio per l’industria.

Per essere venduta in America un auto deve fare 15 km al litro, ma per la California lo standard previsto entro il 2025 sarà di 21,7 km/litro. Un caos normativo che ha visto i costruttori spaccarsi in “californiani” e “trumpisti.”

Ford, Honda, Volkswagen e BMW, rappresentanti complessivamente il 30% del mercato americano, hanno adottato le norme californiane.

Toyota, General Motors e Fiat Chrysler si sono schierati con Trump.

Fiat Chrysler ha anche approfittato per annunciare che lascerà il mercato elettrico. La 500E, tanto odiata da Marchionne ma imposta dalle quote elettriche richieste dalla California, non verrà più commercializzata qui, una conseguenza tossica del liberismo ambientale e del revisionismo ambientale di Trump.

Avvertimenti

Il caos californiano è emblematico della follia di affidare al mercato – e a governi liberisti –  la tutela ambientale. Un dato rilevato anche nell’ennesimo avvertimento pubblicato il 5 novembre su BioScience.

Firmato da 11.000 scienziati recita: “Gli scienziati hanno il dovere morale di avvertire chiaramente l’umanità di pericoli catastrofici. In base a questo obbligo e ai dati presentati qui, dichiariamo chiaramente e inequivocabilmente che il pianeta Terra si trova di fronte ad un emergenza climatica”.

Il rapporto distilla in cinque punti la risposta necessaria (“l’immenso aumento di sforzi necessari a preservare la biosfera”):

  1. riduzione degli idrocarburi e delle emissioni
  2. conversione a energie rinnovabili
  3. protezione degli ecosistemi
  4. riduzione del consumo di carne
  5. decrescita demografica.

Gli scienziati aggiungono un sesto punto:

  • “riorientare gli obbiettivi economici dalla crescita dei PIL verso la sostenibilità e riduzione delle inuguaglianze.”

Per sperare di uscire dalla distruttiva spirale di consumo e crescita obbligata in cui ci troviamo – occorre ripensare il “sistema” che li produce. Il mercato non può essere la soluzione  perché è il sistema che lo produce. Il capitalismo è incompatibile con la sopravvivenza del pianeta.

Non poteva esserci regime peggiore per far fronte alla straordinaria contingenza attuale che il neoliberismo instaurato con Reagan e culminato oggi con gli estremismi instabili del nazional populismo, la regressione globale minaccia letteralmente di morte il pianeta.

È l’amara, inevitabile, constatazione mentre in questo autunno nefasto la calamità ambientale prosegue con l’evacuazione di 2 milioni di sfollati che in Bangladesh fuggono il ciclone Bubul.