All’insegna della campagna vaccinale e del build back better, il primo semestre del mandato Biden ha per la maggiore beneficiato del provvisorio sospiro di sollievo del paese che tenta il cauto ritorno alla normalità. Ma appena sotto la superficie incombe una corrente reazionaria che presagisce una inevitabile resa dei conti.

Sul piano di welfare e infrastrutture, che dovrebbe infondere altri 6mila miliardi di dollari nell’economia e pacificare il paese, incombe l’ombra dell’ostruzionismo repubblicano che aspetta di far deragliare la presidenza «socialista radicale», come sogliono dipingere la linea centrista e moderata del presidente.

È vero che nei sondaggi Biden gode di un gradimento del 60%, ma la patina di calma apparente è sottile. Il nazional populismo è tutt’altro che sopito e Donald Trump continua a comportarsi come fosse ancora presidente – perlomeno dei 75 milioni di americani che hanno votato per lui.

Espulso dai social e rintanato nel rifugio-resort di Mar-A-Lago, effettua occasionali sortite sotto forma di comizi «patriottici» in cui alterna la consueta autocongratulazione alla recriminazione sulle «elezioni rubate». L’esautorazione indebita tramite «vasti brogli» – ancorché palesemente falsa – è la narrazione portante dell’immaginata riscossa. E un impressionante 65% dei repubblicani dichiara oggi di credervi.

La Big Lie è la chiave di volta di un complottismo fomentato tuttora senza sosta dai media di destra sui quali ha assunto la valenza di «verità potenziale» che hanno le bugie continuamente ripetute e insinuate nella pubblica percezione. Il fenomeno noto come «crisi epistemica», in cui le fake news si saldano con negazionismi anti-vax e teorie del complotto generale in stile Qanon, fomenta tuttora impulsi insurrezionalisti.

La cartolina dell’estate 2021 ritrae dunque un paese profondamente diviso e dissociato dalla realtà. Nel nordovest, riarso dalla calura anomala, qualcuno ha organizzato un referendum per creare un «grande Idaho», uno Stato immaginato per raccogliere insieme zone rurali di Idaho, Oregon, e California settentrionale e fonderle in un territorio omogeneamente conservatore, separato dalle grandi città che nel frattempo sottoscrivono autonomamente trattati internazionali per la protezione del ambiente e adottano politiche economiche più consone con le socialdemocrazie europee che con l’America profonda.

Il lato oscuro del federalismo è la balcanizzazione: in Iowa, Florida e Oklahoma, dopo la mobilitazione Black Lives Matters sono state promulgate leggi che consentono legalmente di investire manifestanti che «ostruiscano la viabilità». In Texas i nuovi statuti consentono di condannare perfino i tassisti che abbiano trasportato donne a un consultorio per un aborto dopo le sei settimane di gravidanza.

In questa America da Svastica sul sole, il Texas ha dichiarato – ora che la muraglia di Trump è stata rottamata – che procederà autonomamente alla costruzione di un muro sul «proprio» confine col Messico. Quasi subito i governatori repubblicani di Florida, Nebraska e Iowa si sono associati annunciando l’invio di rinforzi (50 riservisti l’uno) per dare manforte ai texani contro «l’invasione dal sud» – immarcescibile slogan del populismo globale.

Christy Noem, trumpista entusiasta e papabile per una eventuale futura primaria presidenziale, si è aggregata: 50 truppe del guardia nazionale del South Dakota di cui è governatrice, per di più finanziate da un privato: Willis Johnson, milionario e anche lui fervente ammiratore dell’ex presidente.

Chi ha segnalato l’irregolarità di fare crowdfunding per l’invio di truppe militari ha dovuto constatare una situazione ancora più insolita in Arizona. Lo Stato di Barry Goldwater e John McCain è tradizionale caposaldo repubblicano ma a novembre viene conquistato da Joe Biden. Già da allora Trump aveva denunciato presunti brogli e chiesto a gran voce verifiche.

Puntualmente effettuate, non hanno rilevato irregolarità. Il risultato è stato certificato a più riprese dalle autorità preposte, compresi numerosi funzionari repubblicani, e diversi tribunali.

Questo non ha impedito che ad aprile la maggioranza repubblicana che controlla il parlamento dello Stato abbia deciso di commissionare un ennesimo riconteggio delle schede, affidandolo stavolta a una società privata, la Cyber Ninjas di proprietà di Doug Logan, sostenitore di Trump e entusiasta fautore della «grande frode».

Da molte settimane ormai le operazioni di «verifica» vengono condotte da volontari trumpisti in un’arena sportiva di Phoenix per verificare, tra le altre «ipotesi», l’eventuale presenza di fibre di bambù nella carta, tali da «comprovare l’origine cinese di schede sospette».

Il complottismo elevato a piattaforma politica dei repubblicani persegue ormai apertamente un binario fallace e sostitutivo dei meccanismi istituzionali, una realtà parallela in cui risiedono milioni di cittadini che di fatto dichiarano ai sondaggisti di aspettare l’inevitabile, imminente restaurazione di Donald Trump. Come comprovato da ogni setta religiosa che offre simili messianiche profezie, è un gioco pericoloso che può condurre a epiloghi tragici. Vedasi l’insurrezione dell’epifania.

Dietro al teatro dell’assurdo si profila un attentato preciso al sistema elettorale che è fondamento della democrazia rappresentativa, inficiato mediante l’insinuazione del dubbio. Un’operazione il cui scopo sarebbe la delegittimazione preventiva di eventuali future vittorie democratiche.

Come ha ipotizzato Timothy Snyder, storico di Yale: «Nel 2022 i Repubblicani riprendono il controllo di Camera e Senato, grazie in parte alla soppressione dei voti avversari. Nel 2024 il candidato presidenziale repubblicano perde il voto popolare con uno scarto di diversi milioni di voti e il collegio elettorale con alcuni Stati di differenza. Ma le autorità repubblicane in alcuni di questi si rifiutano di certificare i risultati denunciando brogli. Camera e Senato accettano questa valutazione e il candidato perdente diventa presidente».

Da notare che il sistema di elezione indiretta (collegio elettorale) ha già, negli ultimi 20 anni, per ben due volte spedito alla Casa bianca un presidente «perdente»: Bush nel 2000 e Trump nel 2016 hanno perso il voto popolare. Stavolta l’operazione sarebbe premeditata da uno dei due partiti che, conquistato da Trump, ha scelto esplicitamente l’alternativa post-democratica.

Biden non è il trionfo della sinistra. E sul piano geopolitico potrebbe anche rappresentare per molti versi un ritorno a un egemonismo di americano di stampo classico.

Ma è palpabile nello scontro sulle sue riforme sociali (salari minimi, assistenza alle famiglie, parità), la sensazione di un punto di flessione per gli Usa, fra autoritarismo e democrazia, sovranismo e inclusione. E che, con le elezioni di mezzo termine già alle porte, la finestra si stia chiudendo per l’opzione progressista.

Le sorti del paese potrebbero decidersi sul riformismo imperfetto di una fragile presidenza Biden, che potrebbe essere l’ultima interposta a un american fascism deciso a utilizzare il nazional populismo per tentare l’affondo degli interessi plutocratici.