Con la sua abilità nel mettere in mostra i lati oscuri della nostra società, le zone da tenere nascoste (Colpire al cuore) fino a quelle in controtendenza (Intrepido ne è stato l’esempio folgorante) con La tenerezza Gianni Amelio compie un pericoloso percorso in un mondo che ha perso i sentimenti. Quasi a servirsi di un materiale scottante, porta lo spettatore a confrontarsi con una inesauribile gamma di emozioni che dapprima sono lievi e appaiono quasi timidamente, come una sorta di gentilezza e di accoglienza, di cura e di amorevolezza, per poi risalire la china con toni sempre più forti e aspri, come il dolore, il disgusto, l’abbandono, l’indifferenza, la mancanza di perdono.

È come se Amelio mettesse il pubblico di fronte a una terapia per riappropriarsi di sfumature che non gli appartengono più, cancellate ormai quasi solo da una cupa tensione. Quasi un abbecedario, una grammatica da imparare nuovamente a furia di vedere le immagini a senso unico proposte quasi sempre dal nostro cinema, ma anche per riconoscere quelle sensazioni che si direbbero sparite dai rapporti umani come per un’anestesia generalizzata.

«Lei bussa e io apro. Dalle nostre parti si usa così» dice il protagonista Lorenzo, un grandissimo Renato Carpentieri, Virgilio di un girone infernale, che torna in un film di Amelio 27 anni dopo Porte aperte. Con quella frase indica una strada all’accoglienza che lui stesso non pratica più, chiuso e ostile verso i suoi figli oltre che verso la vita stessa, una professione di avvocato con parecchi trascorsi poco onorevoli. Lorenzo è un padre che si sente anziano, ma avanza orgogliosamente cadente come la città che attraversa, una Napoli fatta di palazzi antichi, portali consunti, massa indistinta guizzante su motorini. Una città ripresa come la metafora di uno stato d’animo, del caos intimo dei sentimenti: il continuo rumore di fondo intorno a sé e il vuoto dentro. La nuova vicina (Micaela Ramazzotti) riesce a cambiare il suo stato d’animo con una semplicità sconcertante, con la forza della spontaneità, suo marito (Elio Germano) lo incuriosisce e in qualche modo lo riporta indietro alla sua giovinezza, mentre un muro lo separa ormai dal figlio (Arturo Muselli) e dalla figlia (Giovanna Mezzogiorno) che pure compie continuamente silenziosi tentativi di amore filiale. E in più Maria Nazionale e Greta Scacchi in una parte dalle misteriose e crudeli sfumature.

«L’unico fiuto che ho, dice Amelio, è che ci so fare con gli attori»: è infatti puro cinema questo rendere materia viva attraverso i personaggi un materiale tanto poetico e impalpabile ma anche quello più vistosamente drammatico tratto delle nostre cronache, come può essere il confronto con il migrante o con le famiglie «normali» che finiscono in cronaca nera. Il film ti costringe a non cambiare pagina, a guardare negli occhi almeno per qualche secondo l’altro, a cercare ragioni. E un’altra particolare abilità del regista è di innalzare il tiro con equilibrio, attraverso alcune scene straniate, da analizzare ognuna separatamente, da ricordare come quelle strofe che si imparano a memoria.

Senza proclami, ma con una sapienza rara, La tenerezza riesce a creare un mondo dove infine la cupa ostilità verso la vita che costringe inevitabilmente ad invecchiare si stempera dopo aver imparato nuovamente a uscire dal proprio egoismo: «la felicità è tornare, non andare, dice Amelio, la felicità si conquista riappropriandosi del passato, tornando sui propri passi».
Ispirato al romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone, ma completamente trasformato da Amelio autore del soggetto, il film sarà nelle sale da lunedì 24 aprile distribuito dalla 01 di Rai Cinema, dopo l’anteprima mondiale al Bifest di Bari (sabato 22) dove il regista terrà una masterclass.