Come spesso avviene nei suoi libri, anche in Gli aerostati (traduzione di Federica Di Leo, pp. 121 € 16,00), Amélie Nothomb fa convivere finzione e autobiografia in un testo tanto esile nella trama quanto denso nelle sue poste in gioco estetiche, letterarie, esistenziali. A Bruxelles, una giovane studentessa di filologia si trova a dare lezioni private a un liceale sedicenne con problemi di lettura dovuti alla dislessia. Una terapia d’urto, cui lo svogliato ma non certo stupido ragazzo risponde in modo sorprendente – Il Rosso e il nero di Stendhal letto in un giorno, l’Iliade in quattro – fa sì non solo che vengano dissipati d’un colpo i suoi disagi nella dizione, ma che si trasformi in un vorace lettore, appassionato e critico, capace di prendere posizione su quanto legge mettendo in discussione gusti e giudizi di colei che dovrebbe essere la sua professoressa.

E, in effetti, il rapporto maestra-allievo comincia presto a esitare tra verticalità e orizzontalità, non solo e non tanto per la scarsa differenza di età (Ange ha diciannove anni), ma soprattutto perché la centralità della letteratura nel rapporto che si instaura tra i due assume un significato cruciale. La grande letteratura – quella che «colpisce», come ha affermato Nothomb in una intervista – non ha solo il merito, comunque irrinunciabile, di procurare piacere: più essenzialmente consente un accesso privilegiato e decisivo alla realtà.

E in effetti, il problema fondamentale dei personaggi di questo romanzo è proprio quello di essere, per diversi motivi, affetti da un «deficit di realtà». Non solo Pie, il ragazzo che ne è il più consapevole («non ho una vita»), ma anche suo padre, arido trader che confonde la realtà con il denaro accumulato o grazie agli status symbol di cui si circonda, e sua madre insignificante signora che colleziona costosissime porcellane di cui contempla le immagini sullo schermo del computer, appaiono deprivati di una reale consistenza, che si estende un po’ a tutto il mondo circostante. Lo fa capire bene Ange, la quale sente, tuttavia, che per la prima volta, proprio nel rapporto con Pie, «lo sguardo dell’altro le rivela quanto fosse necessaria».

È uno sguardo filtrato o costruito dalle letture proposte da Ange al ragazzo: classici – da Omero a Radiguet, passando per Madame de La Fayette, Stendhal e Kafka – che non portano mai con sé giudizi morali, o arte della conciliazione, né implicano una estetizzante confusione tra arte e vita. Ange si troverà a rifiutare le avances che Pie le farà immedesimando se stesso e la sua maestra in celebri coppie di personaggi della Principessa di Clèves, del Diavolo in corpo o del Ballo del conte d’Orgel. La letteratura appare qui, sostanzialmente, uno straordinario strumento di decrittazione del reale: «tutto può avere a che fare con la letteratura». Il confronto con i grandi testi ha un potentissimo impatto sul lettore, il quale ne ricava l’impressione che si producano in lui profonde trasformazioni, capaci persino di spingerlo a praticare gesti estremi.