Imbattersi in un nome come quello di Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930/Roma, 11 febbraio 1996) significa imbattersi in una ‘matassa’ biografico-poetica gravosa da dipanare, dal momento che vita e poesia formano un tutt’uno assolutamente inscindibile. Le esperienze vissute, specie quelle tragiche, hanno tessuto versi inarrivabili, proprio perché sono l’essenza della sua personalità, l’Io. E viceversa. Perché, come dice Maria Clelia Cardona (Viterbo, 5 novembre 1940), poetessa, critica letteraria ma soprattutto allieva e amica della Rosselli, «per Amelia la poesia non era un esercizio da tavolino, o un modo per abbellire e riempire la vita». L’equivalenza vita-poesia poggia indubbiamente su un elemento drammatico; un’equivalenza serrata tra l’assassinio del padre e il suo stesso suicidio. Per provare a comprendere la figura della Roselli, a novant’anni dalla nascita, è dunque necessario osservare ciò che avrebbe sconvolto la sua vita fino a minare irreversibilmente la salute psichica, i luoghi in cui ha vissuto, la lingua adoperata negli scritti o, meglio, il trilinguismo. Lo shock subìto, che avrebbe appunto marchiato l’esistenza, è stata la perdita del padre, Carlo, che, insieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937 viene ucciso a Bagnoles de l’Orne, in Francia, dai ‘cagoulards’ su ordine di Mussolini e Ciano. Sono entrambi militanti antifascisti e vengono assassinati prima a colpi d’arma da fuoco e poi a coltellate. Amelia ha solo sette anni e dopo aver visto il corpo sfregiato del padre comincia a soffrire di manie di persecuzione, che a volte si trasformano in deliri ossessivi e che non le avrebbero dato mai più tregua. È una tragedia che si consuma in Francia, dove Amelia nasce da Carlo, padre italiano, e da Marion Cave, madre inglese, e dove resta fino a dieci anni. Dunque, la Francia è la sua prima nazione e il Francese è la lingua della nazione dov’è nata. Negli anni 40 vive con la mamma soprattutto in Inghilterra, dove studia musica, etnomusicologia e composizione. Altra nazione. Altra lingua, quella della madre. In questo decennio vive anche negli Stati Uniti e in Italia, dove si trasferisce definitivamente negli anni 50 e da cui, esattamente da Roma, non si muoverà più. Ultimo luogo, dove si parla la lingua del padre.

Le tre lingue faranno irruzione con tutta la forza possibile nella suoi scritti, dove le regole di una lingua lottano con quelle delle altre due, fino a dar vita all’ydioma tripharium. È un calembour dove intrusioni linguistiche, vocaboli ibridi e calchi sintattici sono propri della metalingua rosselliana. La lingua è intesa unicamente come mezzo espressivo, è ‘altro’ da sé, e ciò accresce in lei le potenzialità creative. L’Italiano s’imporrà sul Francese e sull’Inglese non solo perché si parla nella nazione dove Amelia si stabilisce definitivamente, ma soprattutto perché è la lingua del padre ammazzato: una scelta dettata molto probabilmente dal bisogno di far parlare chi non può più farlo, dunque dal bisogno di giustizia. Anche se la Rosselli sceglie l’Italiano come lingua definitiva, le altre due non svaniscono, bensì affiorano in un tessuto linguistico già di per sé costellato di errori lessicali e sintattici: i ‘lapsus’, come Pasolini li definisce, definendo in tal modo tutta la poesia di Amelia, nel 1963 sul n°6 del Menabò. Non si sa fino a che a punto questi ‘lapsus’ siano volontari o meno. Certamente la Rosselli resta fedele a sé stessa e a tal fine diserta ogni convenzione di stili, metrica e generi. È utile a tal proposito citare Diario in Tre lingue (1955/56) in Primi Scritti (1952-1963): un diario inconsueto, in poesia-prosa dove lingue, letterature, scrittori, culture, etc. entrano a far parte di un gioco linguistico, un divertissement dove analogie e diversità si fondono e si confondono fino a dare senso a tutto. Come nei versi che seguono: «Montale-Proust/italiano stornello popolare/greek-latin prose/Joyce frantumazione/Surrealismo (french)/classici/argots/Chinois/Strutture lingue straniere/eliot-religious». Rosselli chiama Primi scritti ‘esercizi poetici’, perché utilizza tutte e tre le lingue e non ha ancora scelto quella definitiva. Scelta che attua con Variazioni belliche (1958/61): d’ora in poi, eccezion fatta per la raccolta di poesie scritte in Inglese tra il 1953 e 1966 Sleep, scriverà solo in Italiano. La sua lingua d’approdo. Il modo in cui sente la lingua è incomparabile: è una questione di vita o di morte; è posta tra conscio e inconscio; è sessuata per i persistenti rimandi al proprio corpo e a quello degli altri, in particolare a quello dell’uomo amato; consta di colori, suoni e sapori; è fisica e sensuale. A compendiare tali concetti è ella stessa quando nelle Note a La Libellula (Panegirico della Libertà), poema scritto nel 1958, spiega che «il titolo La libellula vorrebbe evocare il movimento quasi rotatorio delle ali della libellula, e questo in riferimento al tono piuttosto volatile del poema.

La libellula può anche ricordare le parole «libello», «libertà»: infatti il mio poema ha come tema centrale la libertà, e il nostro, e mio, libellarla». I versi di questo poema suscitano emozioni impareggiabili: «O vita breve tu ti sei sdraiata presso di me che/ero ragazzina e ti sei posta ad ascoltare su/la mia spalla, e non chiami per le rime. E la roteosa lingua dei santi caduti con i/ fiammiferi stavano per incendiare il vero cielo/sì lacero di ben somministrati sermoni alla meglio/gioventù. Nel carattere è di sorvolare/su le stelle, la mia volontà sia la regina delle/stelle e delle notti. E gli uccelli volavano molto tranquilli.
E la carestia brillava lontana soltanto ironica. E l’una era una donna, l’altro non era un uomo. » Rosselli è un altissimo esempio di scrittura al femminile del Novecento italiano ed europeo. A lei si interessano poeti, critici e musicisti come Giovanni Giudici, Rocco Scotellaro, Andrea Zanzotto, Carlo Levi, Giovanni Raboni, Roman Vlad, Alfonso Berardinelli, Pier Vincenzo Mengaldo, Giulio Ferroni, Luigi Dallapiccola, per citarne alcuni. Quanto al già citato Pier Paolo Pasolini, c’è da aggiungere che oltre a ‘lapsus’, destina alla poetessa anche il termine ‘apolide’. Termine che ella tiene a ben spiegare in un’intervista del 1987 a Giacinto Spagnoletti: «Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito perché era stato condannato per aver fatto scappare Turati». Tuttavia, a comprenderla nel miglior dei modi sono le donne, siano esse critiche, poetesse o amiche/frequentatrici, come Antonella Anedda, Daniela Attanasio, la già menzionata Maria Clelia Cardona, e tante altre. Ella stessa traduce e commenta personalità come Emily Dickinson e Ingeborg Bachmann.

Non a caso è una donna, Stella Savino, a dedicarle nel 2006 un documentario che sintetizza la sua ossessione poetica sospesa tra la possessione orfica e il delirio paranoide. Il titolo L’assillo è Rima racchiude tutto, perché è l’anagramma del nome della poetessa: Amelia Rosselli. La vita stessa della poetessa si chiude con uno sguardo a una donna: Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932/Londra, 11 febbraio 1963), un’autrice molto amata, reputata la più grande poetessa anglo-americana, tradotta e alla quale sono riservate varie pagine critiche. È uno sguardo drammatico, perché Amelia si suicida, lanciandosi dalla finestra della propria abitazione romana, lo stesso giorno e lo stesso mese in cui s’è suicidata trentatré anni prima Sylvia Plath, mettendo la testa nel forno a gas dopo aver serrato porte e finestre: 11 febbraio. Scrutando entrambe, emergono non solo affinità tematiche come i traumi psicologici e i riferimenti costanti alla propria vita, ma anche stilistiche. Tali analogie sono palesi ne Le Muse inquietanti e altre poesie, un testo scritto nel 1985 con cui Amelia manifesta il proprio trasporto verso Sylvia, e da cui emerge ciò che la psicanalisi definirebbe un caso d’identificazione proiettiva.