Da «porta sul mondo» della Germania a «porto della morte» della Repubblica federale al servizio dei mercanti della guerra. Lo scalo marittimo di Amburgo oggi è il principale hub tedesco per l’esportazione di armi: ogni anno dalle banchine della città anseatica viene spedito verso Paesi esteri materiale bellico del valore di oltre un miliardo di euro. Corrisponde a più di mille container all’anno: tre al giorno.

Per questo le associazioni pacifiste di Amburgo che due anni fa hanno lanciato l’iniziativa «Porto civile» martedì scorso hanno consegnato al Parlamento locale 16.442 firme per fermare l’export militare (almeno, per adesso) verso gli Stati che non rispettano i diritti umani oppure giocano un ruolo attivo nei conflitti armati.

Uniti contro il «porto della morte» oltre venti Ong più i sindacati Verdi e Gew e il partito della Linke che attraverso il portavoce della politica per la Pace, Mehmet Yildiz, si appella così alle istituzioni della Città-Stato: «Il Senato di Amburgo deve vietare il trasporto di armi varando un’apposita legge statale mentre la coalizione che governa la città – guidata da Spd e Grünen – deve dare finalmente seguito alla nostra petizione invece di sottrarsi al problema con la scusa che la responsabilità è solamente del governo federale».

In altre parole «basta chiudere gli occhi sul vergognoso business bellico» alimentato sulla pelle dei civili dei Paesi in guerra, e ancora prima stop agli affari miliardari dei produttori di armi made in Germany che non subiscono la crisi economica neppure nell’era della pandemia. Anzi. «Dal 2020 al 2021 le esportazioni di sistemi d’arma e munizioni da guerra dalla Germania è più che raddoppiata. Solamente da gennaio a settembre il porto di Amburgo ha movimentato oltre 535 container pieni zeppi di equipaggiamenti militari» fanno sapere al sindacato dei Verdi.

L’obiettivo dei pacifisti è raccogliere le 68.000 firme necessarie per indire il referendum popolare sul divieto di export e nel frattempo spingere per fare approvare un regolamento più stringente sulle spedizioni belliche, esattamente come previsto nel contratto sottoscritto dai tre partiti della coalizione Semaforo. Anche se nessuno a Berlino è intenzionato, veramente, a stravolgere la norma che al porto di Amburgo viene rubricata alla voce «merci pericolose»: limitare il commercio delle armi tedesche vorrebbe dire danneggiare le 90 aziende nazionali specialiste del settore.

Dai colossi Man e Siemens al produttore di pistole e fucili d’assalto Heckler & Koch, dai sistemi di difesa antiaerea prodotti da Diehl Defense ai lanciatori di razzi di Mbda, dai motori aeronautici della Mtu ai sistemi di puntamento per carri armati di Krauss-Maffei, dagli U-Boot di Thissenkrupp Marine System fino alle bombe di Rheinmetall e ad Airbus che non si limita a progettare velivoli civili.

«Ma incassano miliardi di profitto anche i cantieri navali Lürssen a cui appartiene anche l’amburghese Blohm und Voss» come tengono a precisare gli attivisti del cartello “Zivil Hafen” di Amburgo: «La città da dove continuano a partire, in particolare, tutte le spedizioni di armi verso Arabia Saudita e Turchia imprescindibili per le operazioni di guerra in Siria e Yemen. Da qui la nostra richiesta al Senato locale affinché fermi il business della morte e riconverta l’industria bellica in produzione civile, sociale ed ecologica».

Non è un appello a uso e consumo mediatico ma la rete della società civile che ad Amburgo ha già allestito 26 punti di raccolta-firme sparsi in ogni quartiere della città sulle rive dell’Elba.