Forse l’aspetto più disumano di questo esperimento di socialità sospesa cui siamo costretti, ancora più crudele dell’immaginario distopico ventilato da quei filosofi che paventano la nostra riduzione a nuda vita, è la negazione dei rituali deputati ad accompagnare il cordoglio. In una ottica antropologica, la vita umana non è mai «nuda vita» finché è sorretta da quei riti che fanno parte dei suoi portati culturali; neppure la privazione radicale dei diritti di cittadinanza basta, in realtà, a renderla tale. Ma se la morte viene spogliata della sua cornice culturale e dunque relazionale, si può parlare di «nuda morte»? Questo interrogativo ci invita a indagare su quanto e come le pratiche rituali siano importanti, anche in società di cui si è lamentata la radicale individualizzazione, e il progressivo abbandono dei riti sui quali si è fondata. Non è forse vero, come sostengono teorie sociologiche ormai sprofondate nel tempo, che tentiamo di negare e di nascondere il fenomeno della morte, disfacendoci quasi con vergogna delle pratiche tradizionali del lutto? No, non è del tutto vero.

Malgrado le forme siano mutate, quei rituali che sono il tramite di una comunità stretta attorno alle persone in lutto, ci mancano in quanto passaggi fondamentali per significare la soglia che separa i vivi e i morti. Molti studi ce lo hanno indicato, e di qualcuno potrebbe essere utile ritrovare le pagine più significative. A partire da James G. Frazer, dinosauro dell’antropologia ottocentesca, raccoglitore di dati di seconda mano secondo metodologie da lungo tempo obsolete, le cui rassegne di costumi «primitivi» sono però ancora destinate a sorprenderci per la loro incisività, come del resto aveva visto quel suo critico tutto speciale che è stato Wittgenstein.

Tra paura e rispetto
Già famoso in quanto autore del monumentale Ramo d’oro, fra il 1932 e il 1933, Frazer tenne a Cambridge una serie di conferenze dedicate a La paura dei morti nelle religioni primitive, pubblicate poi in volume: era un’ampia silloge di riti funebri dalle più varie culture di tutto il mondo, la cui raccolta intendeva evidenziare la diffusa presenza di un senso di timore, talvolta vero e proprio terrore, nei confronti dello spirito dei morti. Spesso, le cerimonie funebri sembrano finalizzate ad allontanare le anime dei defunti, a farle partire per un altro mondo, sancendone la separazione dallo spazio dei viventi, e dalla loro quotidianità. Ma proprio questa stessa paura, nota Frazer, entra in contrasto con l’opposto sentimento di «rispetto e affezione per le anime dei defunti», che si cerca di trattenere presso di sé, evitando che abbandonino l’ambito della casa e della comunità.

Il cordoglio è sempre ambivalente: da un lato evidenzia la irresistibile attrazione a seguire i propri cari defunti, o a trattenerli in quanto parte di sé; dall’altro ritualizza la necessità di allontanarli per poter tornare a vivere. Per rendersi esplicita, questa fondamentale ambivalenza ha bisogno di tradursi in azioni concrete, perpetrate sui cadaveri. Per quanto Frazer insista sulle credenze come motore dei riti, le sue descrizioni di pratiche funebri che, pur nella loro grande diversità, appartengono alla umanità intera, hanno sempre al centro la materialità dei corpi defunti.

Un salto indietro cronologico, ma non metodologico. Dedicato alla pratica della «doppia sepoltura», ovvero ai due distinti rituali funebri in uso presso molte società tradizionali, era apparso nel 1907 sulla «Année Sociologique», la rivista della scuola di Durkheim, il saggio di un giovane studioso, Robert Hertz, centrato sulla «rappresentazione collettiva della morte» presso i Dayak del Borneo.

Per questo popolo, una prima sepoltura provvisoria non stacca ancora completamente il defunto dalla comunità; a distanza più o meno di un paio d’anni, quando del corpo sono rimaste solo le ossa, un secondo rito segna la definitiva separazione. Poco familiare all’Occidente moderno, questa pratica evidenzia alcune ricorrenze della ritualità funebre, a cominciare dall’idea che la morte culturale, diversamente da quella biologica, non possa compiersi in un solo istante.

Dal visibile all’invisibile
«Il fatto bruto della morte fisica – scrive Hertz in Sulla rappresentazione collettiva della morte (Savelli, 1978) non basta a consumare la morte nelle coscienze: l’immagine di colui che è morto di recente fa ancora parte del sistema delle cose di questo mondo: essa se ne distacca a poco a poco, con una serie di lacerazioni interiori.… Il gruppo ha bisogno di atti che fissino l’attenzione dei suoi membri, che orientino l’immaginazione in un senso definito, che suggeriscano a tutti una determinata credenza». Anche in questo caso, al centro del rito sta il cadavere, i trattamenti perpetrati sul corpo, la sua dislocazione negli spazi domestici e in quelli della comunità, il rapporto fra le sue parti degradabili e quelle che restano nel tempo. Del rito fa dunque parte una dimensione corporea e materiale, che non si presta a venire surrogata da pratiche puramente spirituali. Spetta alla coscienza collettiva sancire il passaggio del defunto dalla società dei vivi a quella dei morti, da quella visibile a quella invisibile: passaggio che deve compiersi gradualmente perché, scrive Hertz, «noi non possiamo pensare alla morte come tale tutta in una volta».

Sia la questione dell’ambivalenza che quella relativa alla intrinseca socialità del lutto sono ripresi e svolti in una cornice di grande profondità filosofica da Ernesto De Martino in uno dei suoi capolavori, Morte e pianto rituale, che partiva – com’è noto – dalle forme arcaiche del «lamento funebre» nel Mezzogiorno contadino degli anni Cinquanta, documentate in spedizioni etnografiche che stanno alla base dell’antropologia italiana del dopoguerra. Ben al di là dell’indagine folklorica, e anche del programma, tutto gramsciano, di inclusione delle «plebi rustiche del Mezzogiorno» nella nuova unità nazional-popolare dell’Italia democratica, in gioco erano i modi in cui la cultura affronta la morte. L’ambivalenza attrazione-paura viene riletta da De Martino in chiave al tempo stesso storicista e esistenzialista. La «crisi della presenza», che per i sopravvissuti coincide con il momento dell’estremo dolore per la perdita dei propri cari, si manifesta come una irrelata depressione, una grande agitazione: si vogliono trattenere i morti, ma anche andare con loro al di là del mondo dei viventi. Ed è una crisi non oltrepassabile individualmente, perché il lavoro del lutto necessita di norme comportamentali e di un linguaggio dettati dalla tradizione.

«La crisi del cordoglio – scrive De Martino – si presenta (…) come il rischio di non poter trascendere il momento critico della situazione luttuosa. La perdita della persona cara è, nel modo più sporgente, l’esperienza di ciò che passa senza e contro di noi: ed in corrispondenza a questo patire noi siamo chiamati nel modo più perentorio all’aspra fatica di farci coraggiosamente procuratori di morte, in noi e con noi, dei nostri morti, sollevandoci dallo strazio del “tutti piangono ad un modo” al saper piangere che, mediante l’oggettivazione, asciuga il pianto e ridischiude alla vita e al valore».

Anche oggi, la dialettica tra il trattenere e il lasciar andare, e la centralità del cadavere nelle cerimonie funerarie restano i tratti cruciali del nostro modo di immaginare la morte, e dei riti oggi negati: come ha scritto l’antropologa statunitense Beth Conkli, il cadavere è una peculiare forma di persona-cosa, che conserva almeno per il periodo del funerale le caratteristiche del vivente. È un «oggetto inalienabile», che «appartiene» alla sua cerchia familiare o sociale più vicina, e al tempo stesso ne rappresenta un potentissimo marcatore di identità sociale.

Cosa accade dunque nel caso di assenza dei corpi, come può avvenire in incidenti, attentati terroristici, oppure donazioni di organi post-mortem? Viene allora spezzata l’unità di corpo e persona, e la materialità sostitutiva (immagini e così via) non sarà mai del tutto adeguata a svolgere il lavoro del distacco.
Un caso parallelo e inverso è quello dei corpi dispersi, per esempio dei migranti annegati nel Mediterraneo. Qui i corpi sono spesso recuperati ma non identificati, manca cioè la loro componente di «persona sociale»; eppure nei piccoli cimiteri siciliani, come documentato da Giorgia Mirto (in «Lares», 1, 2019), le loro sepolture sono oggetto di culto e di pietà da parte di abitanti locali.

La resa del nome
Non è l’idea astratta della morte, né solo il peso etico del drammatico destino di questi annegati, bensì la presenza materiale dei corpi e delle tombe a richiamare il lavoro del cordoglio. A questo aspetto è dedicato il lavoro dell’antropologa forense Cristina Cattaneo in Naufraghi senza volto (Cortina, 2019) , che ha lavorato, caso per caso, a dare un nome a queste vittime altrimenti dimenticabili, restituendo ai corpi morti quella eloquenza della quale solo i vivi dispersi attorno a loro sono stati consapevoli.