Quante pestilenze hanno falcidiato l’umanità in cammino? Tante, una decina solo in questo ventennio. Ma il Covid-19 ci consegna un messaggio nuovo e terrificante: se non cambiamo stili di vita e di consumo, saranno i cambi climatici a portarci pandemie ancora peggiori. Il còmputo è presto fatto.

La concentrazione di CO2 nell’atmosfera – stabile per millenni a 325 parti per milione – è salita nell’era industriale a 410 ppm, e non accenna a calare. Con quali effetti? È aumentata di 1,1 gradi la temperatura planetaria (ultimo dato Onu rilevato in aprile) e continua a salire verso la fatidica soglia dei 2 gradi; gli oceani si riscaldano e si alzano di livello; si estremizzano i fenomeni climatici.

Ormai oltre metà dell’umanità (4 miliardi) si addensa in aree urbane, dove un virus ha modo di propagarsi meglio. Le deforestazioni e gli allevamenti scriteriati spingono specie aliene ad infettare l’uomo per via di zoonosi. In breve, se non curiamo la natura come noi stessi, spianiamo la strada a più gravi pestilenze.

Dopo ogni crisi pandemica, grazie a una naturale resilienza le popolazioni colpite reagivano con rinnovato vigore. Ma da quando l’uomo si è fatto superare dalla propria potenza distruttiva, da quando ha acquisito tecnologie e consumi in grado di ferire la Terra, tutto è diverso. Ora il nostro slancio vitale – verrebbe da esclamare – dovrà indirizzarsi verso il “non fare” piuttosto che il “fare”. Così ragionavano gli eremiti cristiani assistendo al collasso dell’Impero romano. Ma ciò suona paradossale, e ostico alle nostre pulsioni a fare, consumare, inquinare, disboscare, cementificare, spostarsi da un luogo all’altro senza camminare, consumare molto suolo e poche suole.

Perciò i governi dovrebbero concentrare le risorse su un New Green Deal non europeo ma planetario, con investimenti massicci e “job intensive” in ogni settore: energia, trasporti, sanità, edilizia, agricoltura sostenibile, educazione, intelligenza artificiale. L’inattesa disponibilità di denaro fresco offre un’occasione irripetibile per la riconversione ecologica. Che significa, in pratica, eliminare le scandalose sovvenzioni a petrolio e carbone. Tassare sul serio le emissioni di gas-serra. Mettere in moto un’economia “circolare”, cominciando dalla plastica. Penalizzare i consumi indotti da un capitalismo d’accatto. Scoraggiare il turismo mordi (senza gustare) e fuggi (senza apprendere nulla). Fermare l’interscambio di merci da un capo all’altro del globo che non tiene conto dei costi ambientali: è forse normale che milioni di salmoni catturati lungo le coste del Pacifico nord-americano siano spediti in Asia per essere ripuliti e poi rispediti in America o in Europa per essere venduti? Percorrono più miglia da morti che nella stagionale trasmigrazione da vivi.

Un New Green Deal planetario – si diceva – per evitare il ripetersi di quanto accadde dopo la crisi del 2008, quando la “bolla del carbonio” riprese a gonfiarsi come prima. Ma è possibile ripartire col piede giusto senza gli Stati Uniti, la nazione più energivora e consumistica del globo? Una nazione guidata da un presidente disturbato, che ha rescisso l’accordo di Parigi sul clima e smantellato ogni misura introdotta a fatica da Obama? Parliamo di un presidente che, invece di ordinare “lockdown immediately!”, benedice con la Bibbia in mano i cittadini corsi a comprare nuove armi, precise al punto da centrare a cento metri di distanza un coronavirus (o anche un nero, dato che il cartello NO TRESPASSING vale per tutti, da un microscopico virus fino a un omone di pelle scura).

Ora gli Usa hanno superato il traguardo di 100.000 deceduti, il doppio dei 58.000 caduti in Vietnam. Tra le vittime va segnalata una donna, Annie Grant, il cui destino è un paradigma della realtà americana. Impiegata da 15 anni in uno stabilimento di lavorazione di carni della Tyson Foods in Georgia, a fine marzo fu colta da febbre, rimase due giorni a casa, ma al terzo fu richiamata in fabbrica, pena un “ritocco” in busta paga. Finì in ospedale, dove morì il 9 aprile dopo aver contagiato decine di lavoratori affiancati alle catene di macellazione e confezionamento.

Sei contee sulle dieci più devastate dal virus in America ospitano le maggiori industrie di carne. Ma i tre giganti del settore (JBS Usa, Tyson Foods e Cargill) hanno altre priorità: devono nutrire un popolo di carnivori comandati dal Carnivour in Chief, il quale adora il Big Mac e ha inserito la produzione di carni tra le “critical infrastructures” come in tempo di guerra. E il suo vice, Mike Pence, ha esortato quei lavoratori così: “Voi garantite un grande servizio al popolo americano e dovete continuare a fare il vostro mestiere”.

Nel 1990 a Washington incontrammo Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute. Ci assicurò che “tempo trent’anni, diciamo nel 2020, saremo diventati vegetariani per amore o per forza”. Bastava calcolare la quantità di metano emesso dagli allevamenti di bovini, più la quantità d‘acqua (10.000 litri) e di foraggio (10 kg) occorrenti per produrre un kg di bistecca di manzo, più un miliardo di cinesi futuri consumatori potenziali. La sua previsione metteva in conto tutto, salvo l’ingordigia dei carnivori seriali.

Annie Grant è morta perché la social security in America non è security per tutti. Chi perde il posto di lavoro ha ben poche reti di sicurezza. Il disoccupato può perdere anche la copertura sanitaria. E se la disoccupazione sale di colpo dal 4% al 20% come quest’anno, solo metà dei disoccupati non assicurati sarà coperta da Medicaid. Gli altri è meglio che non si ammalino. Dunque, 7 milioni di cittadini si sono aggiunti ai 30 milioni mai assicurati e agli altri poveracci in fila agli sportelli dei “buoni pasto”. Come nell’Europa del ‘45.

Annie Grant è morta perché il sistema neoliberista impostosi negli Usa da 40 anni ha creato una “società delle diseguaglianze”. Nel 1980 l’1% della popolazione più ricca si spartiva il 10% della ricchezza nazionale, oggi il 20%. Un miliardario saggio, Warren Buffett, ironizzava (ovviamente in ben altro contesto): “Solo quando la marea si ritira si vede chi nuota nudo”. Ora che il Pil è sceso sottozero, si vede bene la “nudità” dei programmi di rilancio.

I 2000 miliardi di dollari stanziati da Trump vanno ad aiutare in primis banche e compagnie come quelle aeree, ma non la riconversione ecologica. Anzi, molti miliardi vanno a gonfiare ulteriormente la “bolla del carbonio”, come i soldi che ha destinati all’industria del fracking delle sabbie bituminose.

Dato e non concesso che il 3 novembre gli elettori cacceranno Trump, riuscirà Joe Biden a raddrizzare il Paese? Nel suo programma presidenziale ha definito “cruciale” il Green New Deal; ma saprà realizzarlo davvero come riuscì Roosevelt col New Deal? Molto dipende da chi sceglierà quale vicepresidente.

Si sa che Biden vorrebbe limitarsi a un solo mandato. “Sarò un presidente di transizione” ha già dichiarato. La prima volta che lo incontrai, il 13 giugno di anni fa, a Wilmington, eravamo a una parata religiosa per la festa di Sant’Antonio (sic), con i suoi e i miei bambini per mano. “Sono un cattolico praticante” si era premurato di dirmi. Ora che ha precisato di voler essere un presidente di “transizione”, inevitabile ricordare che anche Giovanni XXIII venne eletto come Papa di “transizione”. Poi lasciò tutti di stucco convocando un Concilio rivoluzionario. Chissà…

*Consigliere diplomatico dei ministri dell’Ambiente Ruffolo, Ripa di Meana, Rutelli e Spini