L’arrivo in Israele venerdì scorso dell’ambasciatrice kosovara Ines Demiri è l’ultimo passaggio di una scelta discutibile: il Kosovo è il primo Stato musulmano e il terzo al mondo dopo Stati uniti e Guatemala ad aprire la propria ambasciata a Gerusalemme.

L’annuncio aveva colto tutti di sorpresa, il 4 settembre dello scorso anno. Il presidente americano Donald Trump, a caccia di successi da spendere in campagna elettorale, aveva montato una farsa che aveva destabilizzato non poco la regione per costringere i due recalcitranti vicini a stringere i cosiddetti accordi di Washington.

La farsa vedeva come attori non protagonisti il presidente della Serbia Aleksandar Vucic, l’allora premier kosovaro Havdullah Hoti e lo stesso Trump. Ma a tessere l’ordito era stato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu.

Lo si vede oggi con ancor più chiarezza: quegli accordi sono rimasti in gran parte lettera morta, specie quelli, vaghi, inerenti alla stabilizzazione della regione e alla cooperazione tra Serbia e Kosovo. Una sorte migliore hanno avuto i punti cari a Netanyahu, anche se non tutto è andato come previsto.

All’indomani dell’accordo, la Serbia si era già sfilata dall’impegno di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, rimpiazzandolo con un generico riferimento all’apertura di «uffici di rappresentanza economica». «Non è una decisione definitiva», aveva detto la portavoce di Vucic e da allora sulla questione è calato il silenzio di Belgrado.

Un silenzio rotto solo agli inizi di febbraio quando con una cerimonia virtuale Israele e Kosovo hanno ufficialmente aperto le relazioni diplomatiche. Un indubbio successo per Pristina che viene riconosciuta dal 117mo Stato e che rinsalda così un rapporto, quello con gli Stati uniti, che aveva subito notevoli scosse con l’arrivo di Trump alla presidenza, dapprima adombrando l’accordo di uno scambio di territori con la Serbia per mettere fine all’annoso conflitto tra Pristina e Belgrado, poi orchestrando un colpo di mano teso al rovesciamento dell’ex premier kosovaro, Albin Kurti, visto come un ostacolo dalla Casa Bianca alla «pax americana» escogitata da Trump.

Un indubbio successo anche per Israele, che per anni aveva visto di mal occhio il riconoscimento di Pristina da parte delle cancellerie europee e americana, temendo un precedente pericoloso per la causa palestinese. Il successo, va da sé, è puramente simbolico, ma altrettanto dirompente, essendo il Kosovo, come detto, un Paese a maggioranza musulmana.

E sono proprio queste ambiguità a creare delle tensioni con gli orientamenti di politica estera di entrambi gli Stati. La scelta di Pristina, infatti, è destinata ad avere ripercussioni con alleati altrettanto importanti, in primis l’Albania, che aveva votato a favore della risoluzione Onu di condanna del trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

Irritazione è stata espressa anche dalla Ue che ha ricordato a Pristina come il processo di integrazione europea richieda l’allineamento della politica estera sulle posizioni degli Stati membri. Un reminder che sortisce un effetto limitato, a esser generosi, data la poca credibilità della stessa prospettiva di adesione del Kosovo all’Ue, almeno per il momento.

Ben più spinosa è la reazione da parte turca. All’indomani della firma degli accordi di Washington l’allora presidente del Kosovo, Hashim Thaqi, era volato a Istanbul per placare le ire di Recep Tayyp Erdogan che negli ultimi anni ha intensificato la sua azione diplomatica nei Balcani puntando a creare un asse tra i Paesi a maggioranza musulmana, Kosovo, Albania e Bosnia.

La partita forse non è senza costi nemmeno per Israele. Le relazioni con Tel Aviv che finora godevano di ottima salute, avranno dei contraccolpi negativi, promettono da Belgrado. Con il lecito dubbio che sia una promessa difficile da mantenere.