Il fatto che la foresta amazzonica sia in drammatico declino non rappresenta una novità; da tempo inoltre simulazioni eseguite al computer mostrano la prossimità di un degrado consistente della sua biomassa. Ma da studi più dettagliati sta emergendo un rischio ancora più concreto e ravvicinato. Un capolinea da cui non sarà più possibile tornare indietro.

È quanto emerge da un’analisi condotta su immagini satellitari raccolte nell’arco di 30 anni, che dimostra come, a partire dall’inizio del secondo millennio la foresta amazzonica abbia perso il 75 % della sua stabilità, con forti ripercussioni sulla possibilità di riprendersi dai fattori di stress. In altre parole, l’Amazzonia sta per perdere completamente la capacità di conservarsi in quanto foresta. Un trend del genere, se non interrotto, porterebbe l’Amazzonia a cambiare la sua identità naturale, trasformandosi in pochi anni in qualcosa di simile a una prateria, con tutte le conseguenze del caso sul ciclo globale del carbonio, e quindi sul surriscaldamento terrestre. Un processo catastrofico che gli scienziati non sono ancora in grado di prevedere quando potrebbe avere inizio, ma che una volta innescato, sarà irreversibile.

LO STUDIO, A CURA DI TRE RICERCATORI dell’Università di Exter, nel regno Unito, è stato pubblicato il 7 marzo sulla rivista Nature Climate Change, ed il messaggio è chiaro fin dal titolo. «Consistente perdita di resilienza dell’Amazzonia dagli anni 2000». Gli studiosi, fra i quali spicca l’esperto di Modellistica dei sistemi Terrestri Niklas Boers, hanno scelto di analizzare quella parte di foresta amazzonica che meno mostra segnali di sofferenza, ovvero quella ove la frazione di latifoglie sempreverdi, le più efficienti in termini fotosintetici, è superiore all’80%. Si tratta di uno studio prezioso anche perché va oltre le apparenze, ricercando i segnali premonitori di profondi cambiamenti in corso internamente. Difatti la ricerca parte dal presupposto che lo stato generale di un sistema non è rappresentativo della sua capacità effettiva di riprendersi da uno stress o a un trauma, ma che servano indicatori che rispondano in modo più sensibile a fattori destabilizzanti. Ecco quindi che si è andati ad analizzare i tempi di risposta alle perturbazioni di breve termine, ad esempio le variazioni metereologiche, scoprendo che i tempi di reazione della foresta sono sempre più lunghi. Una perdita di resilienza che riflette l’indebolimento di quei meccanismi a feed back negativo, stabilizzanti, che devono contrastare quelli a feedback positivo, destabilizzanti, la cui origine, come è già ampiamente dimostrato, risiede principalmente negli incendi e nella deforestazione; siano questi fattori dovuti all’intervento umano diretto o alla siccità generale, l’effetto finale è la diminuzione della traspirazione fogliare e quindi dell’umidità, con conseguente riduzione delle precipitazioni e della vitalità delle foreste.

NON È UN PROBABILMENTE UN CASO che, come evidenziato sempre nello stesso studio, la resilienza amazzonica si stia indebolendo più rapidamente in quelle parti della foresta pluviale più a contatto con l’attività umana. In questo caso si crea un circolo vizioso: gli alberi sono fondamentali per il ciclo dell’acqua, quindi il loro abbattimento allo scopo di creare pascoli e piantagioni di soia asciuga l’ambiente, determinando una condizione di maggiore aridità che a sua volta provoca la perdita di altri alberi, e così via, fino a quando la situazione è talmente compromessa che il degrado accelera e non può più essere fermato: si tratta del cosiddetto punto di svolta. Questo si intende con meccanismo di feedback positivo, che di positivo in termini valoriali non ha nulla.

I meccanismi di feedback positivo e i punti di svolta sono l’incubo degli studiosi del clima, poiché sono irreversibili su scale temporali umane, e proprio in questi ultimissimi anni se ne sono presentati diversi.

NEL 2021, LA STESSA TECNICA STATISTICA utilizzata sull’Amazzonia ha rivelato i segnali premonitori del crollo della Corrente del Golfo e di altre principali correnti atlantiche, ovvero una quasi completa perdita di stabilità avvenuta nel corso nell’ultimo secolo. L’arresto di queste correnti avrebbe conseguenze catastrofiche in tutto il mondo, interrompendo le piogge monsoniche e mettendo in pericolo le calotte glaciali artiche e antartiche. Un altro studio pubblicato sempre nel 2021ha mostrato che anche una parte significativa della calotta glaciale della Groenlandia è vicina un punto di non ritorno: i dati relativi allo spessore del ghiaccio misurato in un arco di 140 anni preludono a una possibile ondata di scioglimento che riducendo l’altezza della calotta glaciale, la espone all’aria più calda che si trova a quote più basse, provocando un ulteriore scioglimento: al momento è molto probabilmente già destinato a sciogliersi una quantità di ghiaccio che porterebbe a un innalzamento del livello del mare di 1-2 metri.

L’ULTIMO RAPPORTO DELL’IPCC reso pubblico alcuni giorni fa ha puntato l’attenzione proprio su questo: il fatto che singoli eventi localizzati sono più che mai vicini a produrre effetti su larga scala.

Fra questi, il processo che riguarda l’Amazzonia secondo Boers è uno di quelli che sta avvenendo più velocemente. E la perdita definitiva di resilienza avrebbe effetti drammatici: «Osservare una tale perdita è preoccupante. La foresta pluviale amazzonica immagazzina enormi quantità di carbonio che potrebbero essere rilasciate in caso di morte anche parziale».

I dati mostrano anche che il punto di svolta non è ancora stato raggiunto, quindi, a detta dei ricercatori stessi, c’è ancora speranza. «La riduzione della deforestazione», concludono, «è ancora più cruciale, in quanto non serve solo a proteggere le parti della foresta direttamente minacciate, ma anche per conservare la preziosa resilienza della foresta pluviale amazzonica nel suo complesso».