Gli attivisti e i lavoratori hanno chiesto per sette mesi la divulgazione dei dati sulle infezioni da coronavirus. Finalmente giovedì scorso, in blog sul suo sito ufficiale, Amazon ha rivelato che 19.816 lavoratori hanno contratto il Covid-19 negli Stati Uniti tra marzo e il primo settembre 2020. Si tratta dell’1,44% di un milione e 372 mila salariati che operano nei 650 magazzini e hub logistici di Amazon e degli impiegati di Whole Foods Market, una catena di oltre 500 supermercati acquistata nel 2017 dalla multinazionale di Jeff Bezos per 14 miliardi di dollari. Tra i dipendenti diretti il più alto tasso di infezione è stato registrato in Minnesota, sostiene Bloomberg, dove si presume che il 3,17% dei lavoratori abbia contratto il virus, il doppio del tasso di infezione della popolazione americana.

PER AMAZON il contagio è stato inferiore del 42% rispetto al tasso di diffusione del virus previsto sulla scala della popolazione statunitense. Il numero totale di infezioni sarebbe stato più grande se altre aziende avessero pubblicato i dati sui loro lavoratori. «L’ampia disponibilità di dati ci permetterebbe di fare un paragone sui nostri progressi e condividere le migliori pratiche tra aziende e settori» sostiene l’azienda.

NEL TOTALE comunicato non sono stati inclusi i «driver» che lavorano in subappalto, movimentano le merci tra i magazzini o effettuano le consegne dell’«ultimo miglio» a casa dei clienti. Lavorando per aziende terze, e non direttamente per la casa madre, non è chiaro quanti siano i lavoratori che hanno fatto vivere giorno e notte la rete globale delle consegne coordinata dalla piattaforma digitale durante i primi mesi della pandemia.

IL DATO sui contagi dei dipendenti diretti di Amazon è il risultato delle protesti dei lavoratori. Il 30 marzo, a Staten Island, una protesta in un magazzino portò al licenziamento del suo organizzatore Christian Smalls. Amazon ha difeso la decisione sostenendo che Smalls avrebbe dovuto mettersi in auto-isolamento. Guidare in quel momento la protesta avrebbe messo a rischio gli altri lavoratori. Smalls si è opposto a questa ricostruzione e ha ottenuto un’indagine da parte del procuratore generale dello stato di New York. A suo parere sarebbe stata una ritorsione dell’azienda. A Seattle Amazon ha licenziato tre tecnici e ne ha sospeso un quarto. Avevano criticato il trattamento riservato dall’azienda ai magazzinieri. Il conflitto sulla sicurezza nei magazzini e sugli orari di lavoro non è stato isolato al punto da avere spinto un gruppo di senatori americani a scrivere una lettera aperta a Jeff Bezos dove hanno espresso le loro preoccupazioni sulla salute dei lavoratori.

IN UN’INDAGINE pubblicata dalla Nbc lo scorso 30 settembre i lavoratori hanno continuato a criticare la trasparenza delle informazioni all’interno dell’azienda: «Non sappiamo se i casi rilevati sono nel tuo turno o nella tua stessa sezione- dicono – A nessuno della mia struttura sa dio essere venuto a contatto con un positivo».

ATHENA, una coalizione di attivisti americani che si battono per la giustizia razziale e i diritti dei lavoratori, ha chiesto di rendere pubblici i dati sui contagi dei dipendenti in maniera sistematica e un’indagine sulle condizioni di lavoro da parte dei funzionari della sanità pubblica. «Amazon ha permesso alla Covid-19 di diffondersi a macchia d’olio nelle sue strutture, mettendo a rischio la salute di decine di migliaia di persone che lavorano in Amazon – così come i loro familiari, vicini e amici. È, senza mezzi termini, una minaccia per la salute pubblica» ha detto Dania Rajendra, direttore di Athena.

LA MULTINAZIONALE sostiene di avere investito «centinaia di milioni di dollari» nei test sul coronavirus. Entro il prossimo novembre sostiene di averne programmati 50 mila al giorno. L’obiettivo è fare un tampone ai dipendenti ogni due settimane. A questo scopo ha costituito una squadra di scienziati, specialisti e ingegneri nei laboratori a a Sunnyvale, in California, e a Hebron nel Kentucky.

NEL CORSO della pandemia Amazon ha annunciato di avere creato 175 mila nuovi posti di lavoro part-time, 125 mila dei quali sarebbero stati trasformati in dipendenti regolari a tempo pieno. Nello stesso periodo ha raddoppiato l’utile netto annuale a 5,2 miliardi di dollari, rispetto ai 2,6 miliardi di dollari del 2019. A questa cifra impressionante andrebbero sottratti oltre 4 miliardi di dollari di «costi incrementali relativi al Covid per aiutare a mantenere i dipendenti al sicuro e consegnare i prodotti ai clienti». Senza queste spese i profitti sarebbero stati il doppio.