Giorgio Napolitano e Giuliano Amato, trent’anni fa. Il futuro presidente della Repubblica è seduto alla camera tra i deputati comunisti, di cui è capogruppo. Sta attaccando il rappresentante del governo per il decreto che regala alle tv di Berlusconi – oscurate dieci giorni prima da tre preture della Repubblica – la possibilità di tornare in onda. È incostituzionale, dice tra l’altro Napolitano. Amato è il rappresentante del governo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio del Craxi primo. È l’autore di quello che è passato alla storia come il «decreto Berlusconi» – «legge ad personam» si direbbe oggi – ed è venuto a difenderlo in aula. È un frammento di storia che non si incastra con il traguardo di ieri, quando Napolitano ha scelto proprio Amato come nuovo giudice della Corte Costituzionale.

Ma è solo un frammento fuori posto. Nel resto della loro lunga storia politica, Napolitano e Amato non sono mai stati troppo distanti (così come il Pci non fece le barricate contro il «decreto Berlusconi»). E negli ultimi anni sono stati vicinissimi, con Amato alternativamente candidato a sostituire Napolitano al Quirinale o a ricevere da lui l’incarico per palazzo Chigi. Invece, nel nome dell’inclinazione originaria per il diritto costituzionale – negli anni messa un po’ da parte in favore dell’economia, delle scienze e delle presidenze in generale – ecco la nomina alla Consulta. Con la quale Amato allunga il suo cursus honorum ormai imprendibilmente, ma non per questo definitivamente. Perché con la sua biografia di socialista riformista assai gradito a Berlusconi è la personificazione delle larghe intese. Una riserva della Repubblica che per il momento si accomoda in quel palazzo della Consulta (di fronte al Quirinale) dove tra un paio di mesi si deciderà la sorte della legge elettorale.

Avendo fatto il politico per tutta la sua vita pubblica – ed avendo anche teorizzato in un famoso articolo su Repubblica che i giudici costituzionali vanno meglio scelti tra i politici che tra i tecnici – Amato non ha nascosto niente dei suoi pensieri sul Porcellum, la legge elettorale sulla quale la Consulta si dovrà esprimere il prossimo 3 dicembre. Lo detesta, lo ritiene «peggio della legge truffa», uno «sberleffo».

Amato, costituzionalista sottile che prende il posto del tributarista Gallo, potrà meglio fornire argomenti a un giudizio che si presenta assai delicato, e che comunque dovrà prima superare il non facile ostacolo dell’ammissibilità: lo sta studiando il giudice Tesauro che ha fama di giurista assai rigoroso. Se la Corte dovesse decidere per la cancellazione del premio di maggioranza (da Amato sempre criticato) dal Porcellum verrebbe fuori un sistema proporzionale puro. L’anticamera di nuove e obbligate larghe intese.
Alla Consulta potrebbe poi in qualche modo arrivare (più verosimilmente dai tribunali amministrativi, piuttosto che dall’aula del senato come invoca il Pdl) la legge Severino che sta facendo perdere il sonno a Berlusconi. Sul punto non si conosce il pensiero di Amato, anche perché l’argomento è diventato caldo mentre lui era già in quel prudente silenzio che precede le nomine importanti. Però si ricorda una sua uscita sul dossier affine dell’ineleggibilità del Cavaliere in quanto titolare di concessione pubblica: Amato è convinto che per Berlusconi non ci sia alcun problema (lo sostenne nel 2001, da premier del centrosinistra, in piena campagna elettorale).

A guardare la Corte Costituzionale con il metro della politica di palazzo, con l’ingresso di Amato cresce la pattuglia di giudici «terzisti» ed è ormai è in grado di bilanciare, se unita a quelli di orientamento di centrodestra, i voti dei giudici di centrosinistra. E nel perfetto spirito delle larghe intese, il primo risultato dell’arrivo di un nuovo giudice che culturalmente proviene dalla sinistra, è quello di far risalire, si dice a «compensazione», le quotazioni per la presidenza della Consulta di un giudice marcatamente di centrodestra qual è Luigi Mazzella. Così marcatamente da essere stato anche ministro nel secondo governo Berlusconi, oltre che ospite di una famosa e inopportuna cena con il Cavaliere nelle more della decisione sul lodo Alfano.