C’è una umanità lontana, dimenticata nell’Italia interna, la gente dell’Appennino marchigiano che un libro di rara calibratura stilistica, Al centro del mondo (Mondadori, pp. 264, euro 18,50) di Alessio Torino, coglie attraverso il radar eccentrico della letteratura. Un piccolo universo magico, antropologicamente sospeso tra l’antico e il futuro, dove gli uomini e gli animali convivono dentro le profondità della terra, e gli ultimi fuochi della civiltà contadina incrociano le minacce e i feticci del mondo globale giunti nell’ultima porzione viva di mondo per omologarla e distruggerla. È dentro questa frattura che muove il romanzo, a partire dalla sua figura centrale, Damiano Bacciardi, l’indimenticabile ragazzino diciassettenne selvatico e visionario, dall’impeto animistico, che dopo aver trovato il padre suicida «attaccato con la corda al ramo quando aveva otto anni», vede strane figure nei tronchi degli alberi, ma anche il Diavolo, «tanti occhi, dietro i mattoni, e non erano quelli delle bestie», dice, uno che quando urla «dovevano tenerlo fermo in due e non ce la facevano» e sente nel corpo la bestialità degli altri.

COME SUO PADRE legge di continuo il Billy Budd di Melville, e dopo quella sciagura vive nella frazione rurale di Villa Croce con i nonni e lo zio Vince, soprannominato il Gorilla, che dopo la vittoria di Trump «dava ai galli i nomi degli stati americani», dove producono un miele speciale, la manna, che ha il dono della fertilità, in un luogo popolato da poiane, istrici, muli e animali da cortile, e dal Demonio che «si era già rivelato sotto Napoleone», dove fioriscono il nespolo e il ciliegio nell’incanto della natura che si rinnova dentro le stagioni. Un luogo dove nessuno è mai veramente solo, soprattutto i vecchi, e tutto si sviluppa nel vincolo comunitario. Intorno la vita delle campagne della provincia marchigiana del Montefeltro, tra i lunatici personaggi felliniani di un Amarcord contemporaneo, come il pittore Van Gogh con il suo pappagallo Montezuma, i contadini sclerotizzati che s’incontrano al bar dell’Agip a tracannare superalcolici, i giostrai macedoni, e una provincia sempre più barbarica e lunare, che il realismo magico di Alessio Torino rende stralunata e universale, tra furti in casa, incendi al luna park e quello doloso a una quercia centenaria, secondo alcuni simbolo di una terra maledetta. Ma c’è una minaccia che incombe sul destino di questo piccolo fazzoletto di terra e dei suoi abitanti, ultimo avamposto di una civiltà ormai quasi sepolta: l’arrivo di compratori che vorrebbero vendere la sua autenticità per costruirci sopra una operazione di marketing, che vengono da Groninga e «parlano la lingua dei porci», una minaccia che scatenerà una violenza cieca e atavica.

L’OPERAZIONE LETTERARIA che fa Torino è quella di collocarsi dentro la costellazione della tradizione italiana più profonda, nei suoi ambienti, i suoi temi, ma soprattutto esercitando una lingua espressiva e poetica, quella che da Tozzi va fino a Bilenchi e al Fenoglio de La malora, al Volponi de Il lanciatore di giavellotto o a libri come Il ragazzo morto e le comete di Parise, per arrivare ai racconti di Claudio Piersanti e alla letteratura di tre (più o meno) coetanei che sembra stiano lavorando dentro la stessa linea ideale, Stefano Valenti, Andrea Bajani e Marco Balzano. Però innestando in tutto questo un nuovo immaginario contemporaneo, che coglie il bing bang del mondo globalizzato in quello minuscolo della provincia italiana, tra spaesamento e follia.

LA COSA PIÙ RIUSCITA di questo romanzo è tenere un piccolo mondo antico, volutamente rimosso dalla modernità, dentro le ferite dell’epoca, con un effetto di realtà sorprendente, frutto di un lavoro sulla lingua e un montaggio di scene che rivela il suo autore nel punto (per ora) più alto della sua produzione, una lingua che coglie situazioni e relazioni, un lessico contadino ibridato e modernizzato, ma che sa restituire l’isolatezza di un mondo storico ancora chiuso.

Alessio Torino ha scritto un libro politico e poetico, dove il potere onnipotente del denaro e delle società artificiali vuole cancellare le nostre radici, in un paesino delle Marche o in Amazzonia nel cuore della foresta pluviale, come in ogni altro spazio di mondo libero e selvaggio del mondo naturale.