Se avete un sobbalzo ogni volta che vedete in tv Andrea Agnelli col suo ghigno d’arrogante imbroglione (condannato per opachi rapporti con gli ultras e si accredita due scudetti revocati in più) e non siete sostenitori dei «non colorati» (come le tifoserie avversarie chiamano la squadra piemontese altrimenti detta Rubentus per la sequela di favori arbitrali di questi ultimi anni), potreste sottovalutare un delizioso libretto Amarcord bianconero (Einaudi, 99 pg, euro 12) scritto con stile asciutto e mnemonica passione da Ernesto Ferrero, esperto editoriale, scrittore e ex direttore del Salone del Libro.

Un volumetto da segnalare a tutti gli amanti del calcio, un tuffo esemplare nel calcio di una volta, il periodo dal dopoguerra fino agli anni sessanta, coi giocatori eroici e indimenticabili, inseriti in un pezzo di storia della città, con le sue trasformazioni e i suoi nuovi abitanti, quando tutta la società, e anche il mondo pedatorio, era più semplice e diretto con altre speranze da inseguire altro che plusvalenze. Era un calcio molto parlato e raccontato, piacevolissimo da immaginare e reinventare a piacimento, l’opposto della pornografia odierna (insistendo sui dettagli ravvicinati, la moviola, l’ineluttabile retorica del parlato 24 ore su 24). Un album di famiglia autobiografico dove tutti si muovono come luccicanti silhouette, il presidente Einaudi e la dinastia dei liquori Cora, il barone Mazzonis e il monarca assoluto dello stile Gianni Agnelli.

La Juventus fa parte del dna di Ferrero, icona identitaria come i bolliti e il Barbera, guscio rassicurante tra il caso e il merito. Il padre, buon portiere nelle squadre giovanili, ha frequentato il liceo D’Azeglio -quello di Pavese, Bobbio e Primo Levi- dove un gruppo di studenti, a fine XIX secolo, volle cimentarsi col gioco arrivato dall’Inghilterra e «su una panchina di corso re Umberto, di fronte alla pasticceria Platti», fondò una squadra col nome latino, dal vago sapore scolastico. Poi l’epoca del dualismo sociale tra le formazioni cittadine coi colletti bianchi, i borghesi delle professioni, i piccoli imprenditori (rinforzati dai meridionali che salivano sul carro dei più forti) da un lato e le ruvide facce proletarie, i corpi muscolari scolpiti nella pietra, i lavoratori della fatica nell’industria.

In quell’etica dal carattere brusco e diligente, produttività e poche parole, fece rumore l’arrivo del tanguero Cesarini, già acrobata e pugile, specializzato nel gol negli ultimi minuti, personaggio sconveniente per i costumi severi d’allora (si presentava agli allenamenti col pigiama sotto il cappotto e gran frequentatore di tabarin), poi talent scout che scoprirà Sivori al River Plate, il coboldo imprendibile, calzettoni abbassati e tunnel beffardo. Proprio la divina triade col «cardinale» Boniperti detto Marisa per i boccoli biondi e l’ex minatore gallese Charles, gigante buono, farà sognare i ragazzini di tutta Italia, con strabilianti giocate e vittorie a grappoli dove l’estro anarcoide si legava al lavoro ben fatto.

Appaiono tanti altri nomi cari, intagliati nell’ipotalamo, da Farfallino Borel a Sentimenti IV detto Cochi, e Caligaris e Viola, tutti pronti per la filastrocca della formazione mischiati anche a quei giornalisti/scrittori che hanno palpitato tantissimo per quel rettangolo verde, da Umberto Saba a Mario Soldati passando per Gianni Brera, Pier Paolo Pasolini, e il sodalizio Giovanni Arpino/Osvaldo Soriano, riportandoci l’entusiasmo, il ritmo segreto e l’epica di un calcio dal volto umano.