Pina Bausch ha avuto negli anni un rapporto speciale con Venezia, rimasto nel cuore di tante persone, pubblico, danzatori, artisti, programmatori, cambiati dal suo teatro. Basta riascoltare Wim Wenders, quando presentando il suo film Pina, diretto con amore e nostalgia dopo la scomparsa dell’artista, raccontò lo sconvolgimento e il pianto vissuti sulle poltroncine del Teatro La Fenice tanti anni prima vedendo per caso Café Müller e Frühlingsopfer (Le Sacre du Printemps). Il primo titolo in scena alla Fenice fu Kontakhof, era il 1981, quel «luogo dei contatti» che due anni dopo sarebbe arrivato anche al Teatro alla Scala, seguito da Nelken nel 1983, e da quella travolgente antologia del 1985 che per molti è un tassello di vita: Blaubart, Café Müller, Le Sacre du Printemps, Die Sieben Todsünden (I sette peccati capitali), Auf dem Gebirge hat man Ein Geshrei Gehört (dal Macbeth), Bandoneon, 1980, ancora Kontakhof. Poi arrivarono Viktor nel 1992, Für die Kinder von gestern, heute und morgen nel 2005, e ÁA quesgua, dedicato al Brasile, presentato nel 2007 in occasione della consegna a Pina di uno dei più meritati e commossi Leoni d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia.

A QUESTO viaggio è dedicata fino al 14 luglio alla Fenice la mostra Pina Bausch. Gli anni veneziani. Organizzata dall’Archivio Storico della Fondazione Teatro La Fenice e curata da Franco Bolletta, responsabile artistico e organizzativo delle attività di danza del teatro, la mostra è allestita nelle Sale Apollinee: locandine, fotografie di Arici, Studio Giacomelli, Michele Crosera, un docufilm in loop di Anne Linsen girato in parte a Venezia, per un bauschiano amarcord.