Fu il primo calciatore giallorosso ad essere insignito del titolo iperbolico di Ottavo Re di Roma, una griffe che si alternava a quella molto più domestica di Fornaretto. E di tale nomignolo fu presto insignito in via definitiva Amedeo Amadei, già garzone del panificio paterno poi centravanti fra i più classici del nostro calcio, scomparso nella sua Frascati lo scorso 24 novembre alla bella età di novantadue anni che portava con la baldanza di un carattere mai tracotante e però dai modi spicci e diretti, in una postura così improntata al disincanto da sembrare anche ruvida. Amadei detiene un record che nemmeno la precocità degli attuali professionisti ha saputo violare, avendo egli esordito a sedici anni nella vecchia buca di Testaccio il 2 maggio del 1937 in un Roma-Fiorentina e avendo siglato già la settimana successiva, a Lucca, la prima di quasi duecento marcature personali.

Benché spezzata dal secondo conflitto mondiale e poi da una lunga squalifica per l’aggressione a un arbitro di cui sembra non portasse alcuna responsabilità, la sua carriera fu quella di un atleta di costante rendimento, cioè di un goleador dagli estri molto contenuti ma di micidiale efficacia e regolarità. In un recente e informatissimo libro, Gli scudetti che vinsero la guerra (Ultrasport-Lit edizioni, pp. 183, € 17.50), il maggiore storico del nostro calcio, Mario Pennacchia, ne sintetizza in questo modo l’incipit: “Amadei era scappato a 14 anni con un coetaneo e si era presentato a Testaccio in bicicletta. Giulio Scardola, responsabile del settore giovanile, li aveva ammessi a sostenere un provino, presenti anche alcuni giocatori della prima squadra e l’allenatore Guido Ara.

‘Fui subito tesserato – avrebbe ricordato Amedeo – ma la gioia si trasformò in rabbia e delusione quando andai a rivestirmi e mi accorsi che mi avevano rubato il portafogli. E non era finita!. Tornando a casa bucai una gomma e dovetti proseguire a piedi rientrando così tardi che mio padre mi dovette inseguire per tutta la casa’”. Di media statura e corporatura (173 cm per 72 kg di peso-forma), robusto e lievemente atticciato, i residui filmati della Settimana Incom restituiscono l’essenzialità di un repertorio che prevede l’affondo in velocità, il tiro al volo e indifferentemente coi due piedi ma anche un notevole stacco e, all’occorrenza, la capacità di rifinire a vantaggio di un compagno meglio piazzato.

Lo stile di Amadei è lineare, in assenza di gesti compiaciuti e licenze giocolieristiche, l’attuale lessico calcistico lo direbbe un attaccante capace di puntare l’uomo e andarsene verso la porta ovvero in grado di concludere a rete da qualunque posizione e, preferibilmente, entro l’area di rigore. Il suo tabellino di professionista è in effetti notevole: otto campionati alla Roma (fra il ’36 e il ’48, con un intermezzo all’Atalanta), due all’Inter ed altri quattro al Napoli, fino al ’56, per un totale di 423 partite e 174 reti, ad un media di 0,41 a gara, che ne fa il dodicesimo marcatore di sempre in serie A.

Il suo unico scudetto è quello conquistato in tempo di guerra, nel ’41-‘42, con la Roma che va a passo bersaglieresco e riesce a spuntarla sulla squadra che, di lì a un anno, tutta Italia prenderà a chiamare Grande Torino: viceversa, quella in cui gioca Amadei non è una compagine di campioni acclamati ma dispone di un ottimo portiere (Masetti detto Saracinesca), di intrepidi cursori e di un albanese, Naim Krieziu, che in attacco gli si aggiunge, dialogando con lui in duetti rimasti memorabili oppure pescandolo in profondità, con assist volanti, per la stoccata conclusiva.

Tale è il suo senso della posizione, tale la capacità di svariare sul fronte di attacco e all’occorrenza retrocedere al ruolo di appoggio o di seconda punta, che Amadei riesce a convivere, anzi ad armonizzare il proprio gioco, coi maggiori attaccanti della sua generazione: all’Inter con “Veleno” Lorenzi (cioè di una specie di minuscolo Balotelli ante litteram, un toscano insolente e sboccato) e con Stefano Nyers, apolide di classe sopraffina; al Napoli con Jeppson (lo svedese che il comandante Lauro pagò una fortuna) e con un re del poker, oltre che funambolica ala sinistra, quale “Petisso” Pesaola; in Nazionale infine, con Gino Cappello, genio e sregolatezza, col vecchio Carapellese e, già vocato ai ruoli dirigenziali, lo juventino Giampiero Boniperti.

Ma proprio la Nazionale è il capitolo più ingrato della sua carriera: fra il ’49 e il ’53, gioca appena 13 partite pure se con un bottino ragguardevole di 7 gol, fra cui quello inflitto agli inglesi a Firenze, ultima maglia azzurra del grande Silvio Piola, il 18 maggio del ’52, “una castagna buona” fra palo e portiere disse allora Gianni Brera. Se all’esordio da professionista il vecchio Vittorio Pozzo non mostra di accorgersi di lui, se negli anni a cavallo della guerra gli viene preferito il torinista Guglielmo Gabetto, l’esordio di Amadei ai massimi livelli non potrebbe essere più incongruo perché cade nell’ultima gara del girone eliminatorio al Mondiale brasiliano del 1950: è la partita contro il Paraguay, una vittoria per 2 a 0 che non salva l’Italia dall’eliminazione.

Come tutti i suoi compagni (vale a dire i resti del calcio italiano dopo lo schianto di Superga), Amadei ha dovuto subire una decisione federale che sa tanto di fobìa superstiziosa quanto di follìa tragicomica. Dunque si è rinunciato all’aereo e si è preferita la nave, nel qual caso una carretta denominata “Sises” che fa rotta verso le Canarie e prosegue per alcune settimane veleggiando fino al porto di Santos. Durante allenamenti sempre improvvisati in coperta, i palloni da football finiscono via via nell’oceano per essere sostituiti da improbabili palloni medici, la comitiva è divisa in camarille, giornalisti intriganti insinuano rivalità e sospetti: fatto sta che i giocatori ingrassano nell’ozio o, al contrario, si sciupano in continue crisi di maldimare. Il viaggio assomiglia a una catabasi ed è molto probabile che Amadei se ne stia per conto suo, da estraneo o renitente agli intrighi delle camarille. Così non giocherà nella partita decisiva, il 27 giugno a San Paolo, contro la Svezia di Jeppson e Nacka Skoglund che batte gli azzurri per 3 a 2.

Ma quella spedizione deve avergli insegnato qualcosa se ormai novantenne, insieme a pochi reduci (Osvaldo Fattori, Egisto Pandolfini e il portiere Giuseppe Casari che giocò con lui nel Napoli, deceduto il 12 novembre scorso), il vecchio campione collabora allo speciale radiofonico Trenta uomini in barca. I Mondiali di calcio Brasile 1950, un bel documentario di Francesco Frisari e Vittorio Martone trasmesso nel 2011 da Radio 3 Rai. Lì si sente la voce inconfondibile di Amedeo Amadei, bassa, profonda, cadenzata e dall’accento inconfondibile, mentre il tono è come sempre ruvido, brusco. Perché nulla ha perduto della sua schiettezza proverbiale e quando uno degli autori gli chiede un giudizio sulla “Sises” e su quella traversata leggendaria, prima si profonde in un sospiro poi sbotta con un vero e proprio tiro in porta: Uno schifo! Massimo Raffaeli