Il terrorismo è un problema importato dall’Europa e occorre fermare questa follia: è questo, in sintesi, il takeaway dei cinguettii del presidente Trump dopo l’attentato lungo il fiume Hudson a New York.

Della disintermediazione dall’alto Donald Trump ha fatto bandiera, cortocircuitando ogni principio e istituzione di garanzia, fino ad auspicare la pena di morte per un jihadista vocazione suicida, definito animale da mandare a Guantanamo (il carcere la cui inumanità è dunque finalmente ammessa).

Se qualcuno pensa che follia e terrore significhino un killer asserragliato in una camera d’albergo con un intero arsenale di armi da scaricare a caso sugli spettatori un concerto (Las Vegas, 58 morti), si sbaglia: nessun provvedimento federale ha fatto seguito all’ennesimo mass shooting, mentre cronache sempre più grottesche raccontano di investigatori intenti a cercare il movente nella sezione di cervello dell’omicida.

Nella retorica trumpiana gli 8 morti di New York invece suonano le campane della cospirazione aliena, che immediatamente chiama in soccorso l’artiglieria dell’Amministrazione. In questo schema, il terrorismo jihadista è parte dei problemi d’oltremare, e occorre evitare che possa essere esportato nell’America che sta tornando grande.

In queste affermazioni c’è di più che la semplice carica populista che mira a governare dividendo internamente un paese di immigrati e businessmen che viaggiano: c’è anche – ed è sintomatico che se ne parli poco – una carica di divisione che è destinata a minare assi e architetture esterne, in primis quelle del rapporto con l’Europa.

Torniamo all’invasione americana dell’Iraq nel 2003, voluta dai neo-con in cerca di un’inesistente «pistola fumante»: chi fosse tentato dal ricordare come l’uniteralismo di Washington abbia diviso l’Europa, dando fuoco all’innesco del terrore jihadista su larga scala, è bene che getti un occhio a quanto oggi va twittando il Gatestone Institute, think-tank che parla anche italiano ed è diretto da John Bolton, ambasciatore Usa all’Onu negli anni più bui dell’insorgenza irachena, quelli che hanno poi visto nascere lo Stato Islamico in Iraq e Levante: «Cara Unione Europea, sì – il terrorismo sta esplodendo in Europa, a prescindere dalle tue ingannevoli statistiche».

Secondo il Gatestone, Europol diffonde statistiche farlocche, impostate su una definizione di terrorismo che dimentica niente meno che il terrore, allo scopo di minimizzare l’entità del problema islamista in Europa. La verità che la destra americana va predicando, è che invece viviamo nel pieno di un’escalation di terrore islamista che ha l’Europa come epicentro.

Va da sé che la manipolazione della definizione di «terrorismo» è storia vecchia, e che i rilievi degli analisti (chiamiamoli così) del Gatestone sono facilmente smontabili. La questione è però più ampia, dal momento che da un decennio ormai il think-tank statunitense martella fake news sull’Europa, dalle zone off-limits ai non musulmani ai microstati governati dalla shari’a, dall’Ue che mette il bavaglio alla stampa britannica circa l’identità dei terroristi, fino all’ultima bufala – confezionata ad arte in occasione delle elezioni tedesche di settembre, e ripresa da candidati dell’estrema destra – circa la requisizione forzata di appartamenti destinati a «centinaia di migliaia di migranti dall’Africa, Asia e Medio Oriente».

È piuttosto evidente che tali sparate trovino eco e riverbero nel muro di sicurezza che un presidente sempre più malfermo punta a erigere lungo i confini della nazione, toccando persino l’asse transatlantico presidiato dalla Nato, organizzazione che durante la campagna elettorale ebbe a definire obsoleta, salvo sconfessarsi poco dopo.

Nel tritacarne è finita persino la relazione speciale con il Regno Unito: il fondo venne toccato all’indomani degli attentati di Londra e Manchester, con il governo May fra l’imbarazzato e lo stizzito davanti alle esternazioni della Casa bianca, mentre la stampa statunitense che pubblicava dettagli sensibili e prove dalla scena del crimine, frutto di leaks avvenuti lungo un asse di fiducia fra i rispettivi apparati di sicurezza divenuto ormai esile.

Più recentemente, nel Sahel – dove gli Usa hanno perso 4 commando a seguito di un’imboscata jihadista, con tanto di intervento francese a togliere le castagne dal fuoco – si assiste a tensioni con Parigi, che vorrebbe maggiore coinvolgimento delle Nazioni Unite nell’azione della nuova forza di intervento anti-terrorismo regionale.

Le distanze e la freddezza fra Washington e Berlino sono assai note, e ancora una volta affondano le radici nell’invasione dell’Iraq e la demolizione del multilateralismo quale strumento di governance globale.

Il tentativo statunitense di smontare l’accordo con l’Iran, facendo saltare la bilancia strategica regionale a tutto vantaggio dell’Arabia Saudita, dinamita le politiche estere europee al punto che persino il premier Gentiloni, in una rara presa di distanze da Washington, ha recentemente precisato che non è nell’interesse nazionale dell’Italia.

Facendo ampio sfoggio di condiscendenza, il Consigliere alla Sicurezza Nazionale H.R. McMaster ha lodato Trump per avere ristabilito la «competenza strategica» degli Stati Uniti. Pochi giorni dopo, Washington si è trovata a dover definire come «errore di comunicazione» lo scontro che vede opposti, nel nord dell’Iraq e al confine con la Siria, due eserciti entrambi clienti – quello di Baghdad e quello di Erbil.

Davanti a un presidente che per restare in piedi affida le decisioni strategiche ai comandi militari mentre rappresenta il terrorismo come un problema europeo da tenere alla larga, c’è da temere che il solco della divisione attraverserà sempre più non solo la società americana, ma anche i rapporti con gli alleati e l’Europa stessa.