Anno nuovo, guerra vecchia. Il conflitto tra il governo etiope e i ribelli del Tigray sembrava volgere a ridosso del Natale ortodosso verso una situazione di stallo: un cessate il fuoco di fatto che avrebbe potuto aprire a un dialogo negoziale o a una guerra a bassa intensità di durata pluriennale.

Queste erano le impressioni degli analisti dopo il ritiro dei militari tigrini dalle regioni di Amhara e Afar. Il premier etiope Abiy Ahmed nei primi giorni di gennaio aveva affermato che avrebbe liberato diverse figure di spicco dell’opposizione «nel tentativo di raggiungere la riconciliazione nazionale e promuovere l’unità». Un’amnistia «il cui scopo è spianare la strada a una soluzione duratura dei problemi dell’Etiopia in modo pacifico e non violento. Soprattutto con l’obiettivo di rendere un dialogo nazionale onnicomprensivo».

Una decisione che sembrava raccogliere le richieste del Tplf (Tigray People’s Liberation Front) i ribelli che avevano dichiarato di essere pronti a trattative se il governo avesse rilasciato prigionieri politici e posto fine all’assedio del Tigray. Tra le persone rilasciate ci sono Sibhat Nega, un membro fondatore del Tplf, e Abay Weldu, ex presidente della regione del Tigray, ma anche il leader dell’opposizione oromo Jawar Mohammed e il giornalista Eskender Nega. Buone premesse che, tuttavia, non hanno fermato la guerra.

Se da un lato gli scontri sul terreno tra esercito etiope e ribelli tigrini si sono fermati, dall’altro sono continuati gli attacchi aerei. Lo scorso 8 gennaio 56 persone sono state uccise e 30 ferite a seguito di un attacco aereo nel campo per sfollati nel nord dell’Etiopia, nell’area di Dedebit.

Mentre l’11 gennaio sarebbero morte 17 persone per alcuni attacchi con droni nella zona di Mai Tsebri. I ribelli sostengono che vi siano stati anche attacchi dalla vicina Eritrea. Il portavoce del Tplf, Getachew Reda ha dichiarato che il governo di Asmara «continua a sabotare tutti gli sforzi di pace nella regione».

Solo tre giorni fa il premier Abiy Ahmed aveva discusso con il presidente americano Joe Biden «delle opportunità per promuovere la pace e la riconciliazione». L’effetto è uno stallo che condiziona la possibilità di fornire assistenza umanitaria adeguata alla popolazione schiacciata da 15 mesi di guerra.

L’Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha) ha spiegato in una nota che «nel complesso, la situazione degli sfollati interni in tutte e tre le regioni dell’Etiopia settentrionale rimane drammatica e richiede un ulteriore rafforzamento dell’assistenza multisettoriale».

Nelle aree dove vi sono stati gli ultimi raid «i partner umanitari dell’Onu hanno sospeso le attività a causa delle continue minacce di attacchi di droni». «L’Onu e i suoi partner umanitari – ha dichiarato il portavoce Stephane Dujarric– stanno lavorando con le autorità per mobilitare urgentemente l’assistenza di emergenza nell’area, nonostante le continue difficoltà dovute alla grave carenza di carburante, denaro e forniture nel Tigray». Nell’anno che è iniziato la pace è ancora solo una promessa.