Niente mascherine né temperatura misurata all’ingresso, assembramenti all’entrata e all’uscita, spedizioni di beni non di prima necessità, informazioni scarse e confuse. È un clima agitato e preoccupato quello che si respira nello stabilimento Amazon di Torrazza Piemonte, in provincia di Torino, che conta 1.800 dipendenti e dove due settimane fa si è verificato un caso di contagio da Coronavirus. E il ritratto che ne esce, a un primo sguardo, è una contrapposta rappresentazione tra quello che dicono i sindacati («I lavoratori hanno sospeso la loro attività lavorativa assumendosi la responsabilità civile di limitare il contagio da Covid-19») e quello che replica la multinazionale: «Il centro di distribuzione è operativo».

LO STABILIMENTO DI TORRAZZA si staglia come un monolite tra i campi della Pianura Padana, allo stesso modo degli omologhi sparsi per l’Italia. Ieri, secondo fonti sindacali, il 50% dei lavoratori ha sospeso la propria attività lavorativa; una situazione che potrebbe prolungarsi se le loro istanze non saranno considerate. «Si opera – spiegano in una nota Filt e Nidil Cgil – su lavorazioni assolutamente non indispensabili e in condizioni inaccettabili, rispetto a quanto previsto dal protocollo sottoscritto da governo e parti sociali il 14 marzo».

Ma cosa succede davvero all’interno? Abbiamo raccolto alcune voci, rigorosamente anonime, tra i lavoratori. «Chiudere sarebbe la miglior cosa. Ma a dire la verità non c’è compattezza tra noi, anche perché molti hanno contratti di somministrazione in scadenza e continuano ad andare a lavorare per paura di non essere rinnovati».

NON CI SI SENTE SICURI. «Qualcosa l’azienda ha fatto: le postazioni di lavoro sono distanziate, hanno diviso entrata e uscita, slittato i turni di un’ora e lasciato maggiore spazio in mensa. Ma – racconta una lavoratrice – io mangio in macchina, perché ho paura e non sono l’unica». E ancora: «Il problema – dice un collega – è che siamo in troppi ai tornelli come negli spogliatoi, gli assembramenti sono inevitabili, non ci sono controlli della temperatura corporea e non abbiamo mascherine. Ci hanno detto che ci aumenteranno gli stipendi di due euro l’ora, io avrei preferito un maggiore interesse per la nostra salute». Dopo il caso di un positivo da Coronavirus, le informazioni, lamentano i lavoratori, continuano a essere scarse e i ritmi troppo elevati. Delle condizioni di sicurezza nel polo logistico se ne sta occupando la Procura di Ivrea in seguito a due esposti alla magistratura presentati dalla Cgil.

BENI DI PRIMA NECESSITÀ è l’argomento tabù, visto che la multinazionale statunitense ha deciso con l’emergenza Coronavirus di limitare la consegna solo a questi: «Non è vero, al momento, che si stocchino e si spediscano solo beni di prima necessità, ultimamente mi è capitato di lavorare su ordini di bigiotteria, vi sembrano così essenziali?», raccontano.

FILT E NIDIL CGIL, ieri, annunciando l’astensione dei lavoratori dal servizio, si sono rivolte ad Amazon: «Prenda atto che la situazione è ormai insostenibile e assuma iniziative volte al rispetto delle norme e alla tutela della salute dei propri dipendenti. Garantisca la condizione economica dei lavoratori attraverso l’attivazione degli ammortizzatori sociali, altrimenti si faccia carico interamente della retribuzione dei lavoratori. Occorre garantire esclusivamente il trasporto e la prima necessità e non privilegiare il profitto a scapito della salute».

L’azienda ha replicato dicendo di continuare a garantire il servizio ai clienti preservando la salute dei dipendenti. Sostenendo che le misure di sicurezza, «come la nuova organizzazione dei turni di lavoro», erano state presentate ai rappresentati sindacali interni e «accolte con favore».