Come dicono da quelle parti, alla fine lo hanno «lasciato andare». Nelson Mandela si è congedato dal mondo giovedì sera alle 20,50 nella sua casa di Houghton, a Johannesburg. Per un intervallo di tempo che è sembrato infinito, l’annuncio della morte è rimasto sospeso sopra il Sudafrica. E con esso le ipotesi, i mezzi gossip sulla regia occulta che poteva, doveva esserci dietro alla scelta del momento in cui dare la notizia. Per non turbare ora gli esiti della diatriba familiare sul luogo della sepoltura, ora l’agenda di Obama in visita, ora le manovre politiche di Zuma e chissà cos’altro. Bazzecole, rispetto a quanto la scomparsa del Padre Fondatore rischia di turbare i già turbolenti equilibri su cui poggia la Rainbow Nation.

Madiba si è spento lentamente, circondato dai suoi cari e dal paese intero, 95 anni compiuti lo scorso 18 luglio. Non era scontato. Fatto, più unico che raro tra i grandi rivoluzionari africani del secolo scorso, Mandela non è stato fatto fuori in uno dei tanti complotti orditi al crepuscolo dell’epoca coloniale, non ha fatto la fine di Lumumba, Cabral, Sankara, ma ha avuto tutto il tempo di diventare il mito che era. Un mito concreto e vivente. Un miracolo.

Ma non un santo, circostanza energicamente smentita quando percepì il diffondersi della venerazione. Semmai il combattente, il difensore del diritto più basilare di ogni uomo che si rispetti: essere libero nella propria terra, a prescindere dalle barriere di razza, genere, ceto sociale. Quindi l’uomo che subisce 27 anni di ingiusta reclusione e mantiene la lucidità, non cade mai nella trappola. Il militante tosto che dalla «scienza del pugilato» deduce la metafora perfetta del suo ideale etico e politico. Zero colpi bassi, massimo rispetto per l’avversario, anche se ottuso e malvagio come il regime razzista di Pretoria. Mandela non arretra, non sbanda, sa incassare e attendere il momento propizio, elegantemente schiva e con precisione risponde. Poi, molto poi, farà tesoro di questo senso del ring anche nelle vesti di statista. Capace di condensare in una partita di rugby, indossando una maglia per altri versi odiata, quella verde degli Springboks, simbolo altrimenti di esclusione, il senso più profondo e lungimirante della sua politica. «Se parli a qualcuno in una lingua che lui capisce le tue parole saranno comprese – ha detto – ma se gli parli nella sua lingua quelle stesse parole gli arriveranno dritte al cuore». È il fine stratega che pratica l’effetto sorpresa della compassione. Sente l’obbligo della Verità e della Riconciliazione, come recita pomposamente il nome della commissione da lui fortemente voluta, per guardare al passato in spregio a ogni sete di vendetta. Troppo scottato dalla barbarie per poterla tollerare a parti inverse, o peggio ancora in forma interetnica, come stava effettivamente avvenendo. Gli riesce l’acrobazia di evitare che il paese esploda in mille pezzi nel bel mezzo della transizione. Un altro miracolo. Così Mandela è diventato il grande vecchio di una saggezza infinita, quello che «la gloria non deriva dall’essere infallibili ma dalla capacità di rialzarsi dopo un fallimento», quello che «il coraggio non è assenza di paura ma il trionfo su di essa», che «se vuoi fare pace con il nemico devi lavorarci insieme, così diventerà tuo socio», quello che un buon leader deve fare un passo indietro quando tutto va bene e uno avanti se si mette male, che un popolo si giudica da come tratta i suoi bambini. Eccetera. La manna di citazioni che piove da scritti e discorsi va dal bianco e nero tagliente di «voglio vivere ma sono pronto a morire» ai tardi toni epici, al registro della vittoria, il tentativo disperato di raccontarsi senza autocelebrarsi alla fine del Long Walk to Freedom.

Mandela, o il crescendo frastornante dell’epopea che ha portato i sudafricani a liberarsi dell’apartheid. Che non inizia quando il mondo si appassiona ai gigantismi morali del detenuto n°46664, ma all’indomani del massacro di Sharpeville, nel 1960, quando Mandela entra in clandestinità e capisce che l’opzione guerriglia dell’Umkhonto we Sizwe è l’unica via che resta. O prima ancora, era il 1944, quando diventa chiaro che a colpi di garbate petizioni come quelle che l’African national congress rivolge al governo la lotta non sarà mai produttiva. Con la Youth League dell’Anc, Madiba avrà un ruolo forte nel rinnovare la grammatica della rivolta, tra azioni non-violente, resistenza passiva, boicottaggi, pratiche di disobbedienza civile e scioperi organizzati. Tutto finalizzato alla conquista della piena cittadinanza, l’abolizione delle discriminazioni razziali, la ridistribuzione delle terre, i diritti sindacali e il diritto all’educazione per tutti.

Sarà la vera fissazione di una vita, l’educazione, «l’arma più potente». Nessuno nasce per odiare l’altro – sosteneva Madiba -, l’odio gli viene insegnato dopo. E se si può insegnare l’odio si può insegnare anche il suo contrario, che poi sarebbe pure più naturale da imparare se da qualche parte hai un’anima, una coscienza, un recettore sensibile. Talvolta però l’educazione all’odio e l’odio per il diritto di tutti all’educazione coincidono. Non per niente i siti all’estrema destra del nazionalismo boero, ossessionati da un Sudafrica ostaggio di «negri», «giudei» e «comunisti», ieri come oggi, raccontano che «il sistema educativo dell’Impero dell’Africa del sud lo istruì fino a farne un avvocato». C’era in effetti questa possibilità, ma non quella che i neri finiti nei guai potessero poi permetterselo, un avvocato. Negli anni ’50 lo studio legale Mandela & Tambo sopperiva proprio a quella mancanza. Un modo come un altro per creare fastidi al regime, che da lì all’ergastolo con cui si chiude il famoso processo di Rivonia non gli darà più tregua. Né lui gliene concederà, calmo e risoluto com’era, utilizzando al meglio le poche armi di cui dispone. Tra queste la consapevolezza di avere un sorriso dirompente, charme, carisma. E quella poesia di Henley che rimbomba nella testa… «Non importa quanto sia stretta la porta / Quanto piena di castighi la vita / Io sono il padrone del mio destino / Sono il capitano della mia anima».

Mandela muore imbattuto (invictus), ma mica tanto vittorioso. Il paese che lascia è un capolavoro incompiuto, con la sua bellissima Costituzione e una realtà che non può esserne certo diretta conseguenza: le disuguaglianze sono rimaste tali, l’economia resta saldamente nelle mani dell’élite bianca, il culto del libero mercato ha spazzato via ogni pulsione condivisa. E il solo emergere di una classe nera di nuovi ricchi rampanti non può essere considerato un traguardo. È sotto la guida di Madiba uomo libero che l’Anc rassicura l’Occidente puntando su una forma di democrazia liberale in luogo del socialismo, con buona pace di tanti dei valori per cui molti sudafricani avevano dato la vita. Se al disastro sociale oggi si aggiunge un clima politico avvelenato da correnti e corruzioni, le speculazioni già iniziate sulla sua eredità non solo morale e il profilo deludente del Sudafrica nel ruolo di superpotenza regionale, il bicchiere appare decisamente mezzo vuoto. Mentre una “testa calda” come Julius Malema ha trasformato la Youth League in una polveriera e da destra il profilo ragionevole dell’Alleanza democratica seduce chi ha smesso di credere al partito che fu di Mandela. I veloci passaggi dal simbolico al fattuale, dalla rivoluzione al marketing nazionale, non bastano più. La Nazione Arcobaleno è solo uno stato d’animo, coscienza e incoscienza nazionale al tempo stesso. Complice forse la frettolosa musealizzazione dell’apartheid, cioè delle sue rappresentazioni più abominevoli, complice l’introiezione degli stessi modi che si intendeva estirpare, una violenza tatuata sulla pelle dei sudafricani, quale ne sia il colore. Si potevano forse immaginare dopo la presidenza Mandela gli assalti xenofobi del 2008, con i sudafricani poveri delle township che davano la caccia ai poverissimi immigrati dai paesi confinanti, cittadini di quella che era stata la cintura solidale dei Frontline States? Dell’imbarazzo di Mandela non è dato sapere, tanto la sua voce ormai risuonava flebile e lontana.

Scompare così l’uomo su cui sono stati girati più film, scritti più libri, dedicate più statue, piazze, parchi, ponti, scuole. E naturalmente più canzoni, un colossale repertorio internazionalista che inizia sotto casa con le pastose polifonie stile Nkosi Sikelele e il commovente Bring him back home di Hugh Masekela, per poi esplodere nel mondo a partire dagli Specials Aka di Jerry Dammers, l’impenitente antifa’ inglese che anni addietro aveva sposato il punk allo ska giamaicano. Free Nelson Mandela, è indignazione più gioia, rabbia danzata con grazia, è la serenità di stare dalla parte giusta. Da lì in poi tutti a tributargli omaggi. Fino al giro di campo in carrozzella per certi versi impietoso, prima della finale del Mondiale di calcio 2010, un altro dei suoi sogni più politici che si realizzava.

A quel punto sipario, e dimissioni anche dal duro lavoro di icona planetaria. Mandela è morto piano piano. Ma solo ora si è liberato della sola prigionia che poteva ancora affliggerlo, la condizione appunto di mito vivente. È evidente che per tutto il resto non morirà mai.