Contenti che Bernie abbia tolto il disturbo? I commentatori liberal e l’establishment democratico lo danno a vedere. Tirano un sospiro di sollievo, senza rendersi conto che la “suspension” della campagna elettorale annunciata da Sanders non equivale a una resa. A una sua uscita di scena. Con toni paternalistici ne lodano il senso di responsabilità. Ma se l’evidente retropensiero è  che la sua presenza nella corsa, anche dopo le ultime sconfitte, fosse il principale ostacolo rimasto per Joe Biden lungo la via verso il trionfo di novembre, farebbero bene a valutare le numerose criticità che pesano sulla sua candidatura e a soppesare la reale caratura della stessa.

Solo una superficiale lettura della realtà politica attuale fa ritenere l’ex-vicepresidente dotato di maggiore “electability” e di maggiore “likeability” rispetto al senatore del Vermont in una sfida diretta con Trump. Anche Hillary era considerata più “eleggibile” e con maggiore gradimento rispetto a Bernie, nel 2016. Stranamente c’era stata una generale rimozione di quanto era accaduto quattro anni prima, quando un inesperto outsider nero dal nome buffo aveva prima sconfitto l’esperta e conosciuta Hillary per poi mettere ko il navigato McCain.

È duro smontare il ragionamento secondo cui la partita presidenziale si vince al centro, secondo i canoni della vecchia politica di potere, con un candidato espressione dell’apparato washingtoniano bianco, e così sarà nuovamente messo alla prova il prossimo novembre. Si spera davvero che non ci sia il bis del fiasco del 2016. Ma Biden non garantisce che non si ripeta.

Due condizioni potrebbero scongiurarlo. La prima è che la parte politica di cui è espressione e leader Sanders partecipi attivamente alla costruzione della candidatura finale e della sua piattaforma. Diversamente da quanto accadde nel 2016, quando l’apparato clintoniano pretese, di fatto, di far proprio l’apporto dei delegati di Bernie sulla base di un’astratta unità del partito contro il nemico esterno, senza nulla in cambio. Ragione in più perché Bernie abbia annunciato la sospensione e non il suo ritiro dalla corsa. La seconda, legata alla prima, è che salga a bordo appena possibile una personalità di rilievo, come candidato/a alla vicepresidenza, dichiaratamente progressista. Kamala Harris? Di lei si parla molto, però la sua cattiva performance nelle primarie solleva interrogativi sulla sua reale capacità di irrobustire la candidatura di Biden.

Il peso di Bernie dovrà dunque farsi sentire – dovesse essere eletto Biden – nella costruzione della piattaforma politica che impegnerà l’amministrazione democratica con, auspicabilmente, una riconquistata maggioranza nei due rami del Congresso. Ma anche conterà molto l’attribuzione dei dicasteri chiave. Con una disoccupazione che già esplode – 16 milioni hanno perso il lavoro nelle ultime tre settimane – le leve ministeriali dell’economia, del lavoro, del welfare, della sanità dovranno essere affidate a personalità in sintonia con il senatore del Vermont e con il suo programma elettorale. Ma anche il dipartimento di stato e il Pentagono dovranno necessariamente imboccare una nuova strada. Basti pensare alla vicenda della Roosevelt e del licenziamento del suo capitano Brett Crozier per capire come la logica che governa il complesso militare industriale e la sicurezza nazionale sia pericolosamente obsoleta e meriti di essere completamente rivista, dopo il coronavirus.

Ma qualsiasi valutazione e previsione deve fare i conti con la constatazione che mancano ancora sette lunghi mesi al voto di novembre, mentre neppure si sa se e come si potrà celebrare la convention  democratica a Milwaukee, per ora spostata dal 13 luglio al 17 agosto. Se lo scenario proseguirà secondo il “format” delle ultime settimane, il divario mediatico tra Trump e il suo sfidante sarà enorme.

Se la sbandierata crescita economica cede precipitosamente il passo alla crisi e alla disoccupazione di massa, che a sua volta accresce il numero di chi non ha l’assicurazione sanitaria, il conto arriverà alla Casa Bianca. Intanto la gestione della crisi virale da parte di Trump non è certo apprezzata nei sondaggi, altri sondaggi sono nel frattempo largamente favorevoli a Biden nella simulazione di uno scontro elettorale immediato, anche nei collegi in bilico.

Resta l’interrogativo su come gioca per Biden, nell’arco dei mesi che restano, l’azzeramento della campagna elettorale. Chiaramente penalizza le sue capacità migliori, consumato comiziante, empatico nei contatti con gli elettori, l’eloquio giusto con la classe lavoratrice e con le minoranze, in specie gli African American. Le apparizioni in tv via Skype sono anche crudeli nel presentarlo diverso da come si mostrava al pubblico prima dell’epidemia, più aderente alla realtà di un signore anziano, non a suo agio nelle comunicazioni a distanza, vestito con la tuta non più con i suoi abiti sartoriali e i mitici rayban. Non proprio una figura “presidential” ma piuttosto l’aspetto di un dignitoso pensionato. Sette mesi così sono duri, mentre imperverserà Trump, tutti i santi giorni. Sempre all’attacco.

Sarà plastica l’asimmetria tra i due. Mentre sulla scena non si vede ancora Barack Obama, un’assenza su cui specula mafiosamente Trump, con i suoi tentativi di inserirsi nelle contraddizioni dei democratici, prima insinuando sulla rivalità Sanders-Warren, poi sul silenzio di Obama verso il suo ex vice. Trucchi che potevano anche funzionare nella “normalità” pre-virus ma che oggi appaiono troppo ottusamente strumentali per coprire la sua folle gestione dell’emergenza virale.