«Il Sud non è sempre stato il posto più facile per gli afroamericani». Non ha usato giri di parole la senatrice democratica della Louisiana, Mary Landrieu, per spiegare ad un cronista della Nbc le difficoltà elettorali che i democratici stanno incontrando nello Stato. Landrieu, che rappresenta la Louisiana nel Senato federale dal 1996, rischia seriamente di perdere il suo seggio alle elezioni di mid-term del 4 novembre: in media i sondaggi danno al suo avversario repubblicano 4 punti di vantaggio, mentre Fivethirtyeight, il sito di analisi del famoso statistico Nate Silver, assegna allo sfidante il 79% di probabilità di vittoria. Secondo Landrieu, il problema sarebbe, in sostanza, il razzismo del Sud nei confronti del primo presidente afroamericano.

Certo, la senatrice dimentica che nella precedente tornata elettorale (2008) – quando si votò sia per le presidenziali, sia per il Congresso (il mandato dei senatori dura 6 anni, e ogni due si rinnova un terzo del Senato e l’intera Camera) – John McCain vinse in Louisiana con il 58,6%, battendo Barack Obama con un margine di 18,7 punti percentuali. Eppure Landrieu conservò il seggio sconfiggendo il suo avversario repubblicano con oltre il 52% dei voti. Cosa è cambiato nel frattempo? Ci sono questioni prettamente locali, certo, come l’impopolarità della politica energetica dell’amministrazione Obama, che ha imposto una moratoria sulle trivellazioni nel Golfo del Messico dopo il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP.

Ma le difficoltà dei democratici in Louisiana riflettono una dinamica che si riscontra in molti altri Stati del Sud che vanno al voto in questa tornata elettorale, come il West Virginia e l’Arkansas.
Dalla fine degli anni ’60, dopo il varo della legislazione sui diritti civili voluta da Lyndon Johnson, i bianchi del Sud, che dalla fine della Guerra civile avevano votato in massa Partito democratico, presero in misura crescente a votare repubblicano alle elezioni presidenziali. Si racconta che Johnson, poco dopo aver firmato il Civil Rights Act del 1964, abbia sussurrato ad un assistente: «Abbiamo perso il Sud per una generazione». Così fu.

Il voto per le cariche statali e per il Congresso seguì una dinamica diversa: qui la tradizione politica, gli apparati di partito e il prestigio dell’establishment democratico (e conservatore) mantennero un peso determinante. Landrieu, ad esempio, è la rampolla di una dinastia dell’aristocrazia democratica della Louisiana, così come Mark Pryor in Arkansas, mentre Jay Rockefeller (erede di John D. Rockefeller), che per trent’anni ha rappresentato il West Virginia nel Senato federale, era stato in precedenza governatore dello Stato.

Nel corso del tempo, la tradizionale lealtà del Sud verso il Partito democratico è venuta progressivamente meno anche nelle elezioni locali e in quelle per il Congresso. La presidenza Obama ha accelerato notevolmente questo processo, e le elezioni di midterm di quest’anno sono destinate a confermare la tendenza. È qui che la dichiarazione di Landrieu trova fondamento.
L’elezione del primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti – spesso presentata come l’emblema di un’America «post-razziale» – è stata in realtà accompagnata da una polarizzazione etnica dell’elettorato mai conosciuta, che ha subito un’ulteriore accelerazione tra 2008 e 2012. Alle ultime presidenziali, solo il 35% dei maschi bianchi (e il 42% delle donne) ha votato per Obama, mentre il 59% della comunità bianca ha scelto il candidato repubblicano Mitt Romney. Il Sud bianco, in particolare, ha sostenuto Romney in modo plebiscitario, soprattutto il Mississippi (89%), l’Alabama e la Louisiana (84%). D’altra parte, la comunità afroamericana si è stretta quasi unanimemente (93%) intorno al «suo» presidente.

Ma gli afroamericani rappresentano solo il 13% del corpo elettorale, e infatti la «Obama coalition» comprende anche la comunità Lgbt (76%), quella asiatica (73%), quella ispanica (71%), gli abitanti delle grandi città (69%), chi guadagna meno di 30.000 dollari all’anno (63%), gli under 30 (60%) e le donne (55%).

Si tratta dei segmenti di popolazione che tendono a mobilitarsi di più durante le elezioni presidenziali, e ad astenersi in occasione di quelle di metà mandato. Nel 2012, quando si votava per il presidente, l’affluenza fu del 58%; alle elezioni di midterm del 2010, vinte dai repubblicani, arrivò appena al 37%. Il calo più marcato nella partecipazione, rispetto alle presidenziali del 2008, si ebbe proprio tra gli under 30, gli ispanici, gli afroamericani e le donne single.

Il 4 novembre il voto afroamericano, in particolare, potrebbe fare la differenza in alcuni Stati del Sud, come North Carolina e Georgia, in bilico secondo i sondaggi. Per questo i democratici stanno portando avanti una comunicazione specifica, dai toni spesso emotivi, per mobilitare questa parte dell’elettorato, dalla quale potrebbe dipendere l’assetto del prossimo Senato. Se il Sud bianco è perso, insomma, l’America delle minoranze in crescita demografica è un tesoro da preservare.